Il sindaco di Recoleta Daniel Jadue e l’ex deputato ed ex sindaco Gustavo Hasbún sono agli antipodi per posizioni politiche. Il primo è un comunista irriducibile, il secondo è un esponente del partito Unión Demócrata Independiente, tra i più a destra. A legarli è un’antica amicizia e una causa comune: l’impegno per la Palestina che dal 7 ottobre è diventata un’infuocata indignazione che manifestano sulle bacheche dei rispettivi account e nei discorsi pubblici.
Il fatto è che sia Hasbún sia Jadue sono di origine palestinese. Il primo di Betlemme, il secondo di Beit Jala. Fanno parte di quei 500.000 cileni su diciannove milioni i cui padri e nonni arrivarono nel Paese sudamericano in tre ondate tra la fine dell’Ottocento e nel 1948, dopo la Naqba. La più grande comunità di origine palestinese fuori dal mondo arabo. Una rete di famiglie che controllano gruppi finanziari e banche e gestiscono catene farmaceutiche e centri commerciali, hanno sfornato ministri e deputati e vantano esponenti di successo nella letteratura, nel cinema e nelle arti.
“Don Diego, ci sono palestinesi poveri in Cile?”, chiede dubbiosa chi scrive a Diego Khamis, 32 anni, brillante direttore esecutivo della Comunità Palestinese e dell’esclusivo Club Palestino che ne rappresenta il centro social e sportivo. Davanti alla terrazza in cui sediamo, giardini curatissimi sfumano nello skyline dei grattacieli di Las Condes, la zona bene. Nascosti in mezzo agli alberi campi da tennis e piscine, in tutto dodici ettari la cui cura è affidata a paesaggisti di grido. Su un muro, il ritratto di Yasser Arafat.
“I poveri ci sono, certo”, risponde Diego. “Però è vero che i ricchi sono tanti”.
Il primo grande gruppo arrivò alla fine dell’Ottocento. Erano cristiani di Betlemme, Beit Jala e Betsaur che una riforma punitiva dell’impero ottomano a cui quelle città appartenevano spinse a cercare fortuna nelle Americhe. Il Cile era, allora, una terra vergine in cui videro opportunità e si arrangiarono all’inizio come venditori itineranti: compravano oggetti di uso comune nelle città e li vendevano nelle zone più sperdute. Non andò loro male e a quel punto cominciarono ad aprire le prime, piccole fabbriche tessili che nel giro di pochi decenni diventarono delle potenze e quell’attività fu per molto tempo il marchio di fabbrica dei turcos, come venivano chiamati. Basti pensare che nel ’68 il sessanta per cento dell’impiego urbano lo dava l’industria tessile di cui l’ottanta per cento era in mano ai palestinesi.
I “turcos” e l’aritocrazia latifondista
La relativa intolleranza verso gli arabi nacque proprio in quella fase di espansione e di successo. Gli aristocratici cileni, i pigri proprietari terrieri senza vocazione imprenditoriale, li vedevano come una minaccia, ma la discriminazione non si spinse troppo oltre la definizione di turcos che includeva, peraltro, anche gli ebrei. Molti di quegli imprenditori erano illuminati: costruirono quartieri per i dipendenti, e colonie estive sussidiate. Vedi il caso della famiglia Yarur, che diede il nome sia al quartiere per i suoi operai sia all’autobus pubblico che lo collegava al resto della città.
Gli Yarur sono un esempio del successo di tanti palestinesi. Sbarcato in Cile con la prima ondata, il patriarca Juan fondò quello che diventò il più importante gruppo tessile dell’America Latina e la Banca BCI, Banco de Crédito e Inversiones. I figli Carlos, Jorge y Amador aprirono la holding delle aziende di famiglia che ereditò il nipote Juan Carlos, diventando un importante azionista di grosse banche e aziende vinicole oltre che mecenate e collezionista d’arte. Morto Juan Carlos nel 2021, il gruppo è adesso nelle mani del fratello Luis Enrique, il cui patrimonio stando a Forbes ammonta a 1.300 milioni di dollari. E intanto il nipote Juan, 40 anni, è stato incluso dalla rivista Artnews nella lista dei duecento collezionisti d’arte più importanti al mondo.
Già, perché le industrie tessili sono state solo una tappa nella vertiginosa ascesa dei turcos. Quando il modello di mercato cambiò e quelle industrie decaddero, i proprietari cominciarono a comprare banche e finanziarie, e centri commerciali come nel caso di José Said Saffie, morto a novant’anni nel 2020 e celebre per aver aperto nel 1982 il Parque Arauco, il primo mall cileno che diede vita a uno dei gruppi più importanti dell’America Latina. Said nacque in Perù, dove i nonni Issa Said Sahuireh e Julia Kattan erano arrivati da Betlemme alla fine dell’Ottocento, ma si trasferì in Cile con la famiglia quando aveva cinque anni e fu lì che diventò uno degli imprenditori più potenti del Paese: presidente del colosso multinazionale Banco Bilbao Vizcaya Argentaria, poi assorbito dalla Scotiabank e a capo di giganti dell’industria chimica e nelle assicurazioni.
Un altro pezzo da novanta è Alvaro Saieh, il quarto uomo più ricco del Cile e i cui interessi vanno dal gigante CorpBank di cui è presidente al gruppo editoriale Copesa, patron de La Tercera, uno dei quotidiani più importanti del Paese.
Se è vero che i palestinesi si sono integrati in fretta non hanno però perso il contatto con le origini. La maggior parte ha familiari in Palestina che li aggiorna sulla situazione e molti hanno viaggiato in quella terra. “Quando mio padre, dodici anni fa, è andato per la prima volta in Palestina, si è inginocchiato e non riusciva a smettere di piangere e di baciare la terra”, ci racconta Sofia Halabi, 37enne cuoca e divulgatrice di successo della cucina palestinese che considera una “forma di resistenza” e un modo per sensibilizzare i suoi compatrioti su quella causa per cui dal 7 ottobre non dorme la notte.
Figlia di palestinesi di seconda generazione le cui nonne si ritrovavano il sabato per cucinare piatti tipici della propria terra, Sofia ha imparato da bambina a realizzare le ricette delle sue radici. E in un recente viaggio di tre mesi a Betlemme ha capito che la sua strada culinaria era quella della Palestina di cui ha scovato piatti come una magnifica conserva di melanzane che ci offre, nella sua casa piena di fotografie dei nonni palestinesi e di bandiere in cui vive con la sorella giornalista, autrice del libro di successo Cocina de la diaspora. E’ sempre in quel suo viaggio che ha vissuto sulla propria pelle, racconta, la discriminazione dei palestinesi: i check-point, e i permessi per spostarsi ovunque. “Eppure, quando sono arrivata a Betlemme ho sentito che era la mia casa”. Insieme a molti cilestinos è scesa in piazza i primi di novembre per protestare contro i bombardamenti. E come molti ha messo al posto della foto nell’account facebook uno sfondo nero.
Parlando di vittime e di carnefici
Per tutti i cileni di origine palestinese che sono stati in Palestina quell’esperienza è stata il colpo decisivo al senso della propria appartenenza oppressa. Come nel caso della scrittrice Lina Meruane, pubblicata in tutto il mondo e autrice del libro Palestina en pedazos in cui descrive le proprie riflessioni dopo un viaggio in quelle terre. “La narrazione di vittime e carnefici si è andata invertendo nelle ultime decadi, anche se Israele ha convinto buona parte del mondo occidentale che criticare le sue politiche sia antisemita”, ci dice. Mentre è anche a causa dei suoi viaggi in Palestina che Gustavo Hasbún ha radicalizzato posizioni e linguaggio: non giustifica certo il pogrom di Hamas ma parla di genocidio e crimini da parte di Israele uguali a quelli dei nazisti, dov’è la differenza, chiede? Gustavo, come sono i rapporti con la comunità ebraica? “Sono sempre stati eccellenti fino al 7 ottobre. Poi c’è stato un distanziamento. Tutti gli ebrei di qui appoggiano la reazione di Netanyahu con la scusa che si sta difendendo e questo non possiamo accettarlo”.
Non sono solo i viaggi a tener vivi i legami. Molti tra i ricchi hanno costruito in Palestina alberghi e sistemato vecchie terre e case di famiglia. Elizabeth Kassis ha aperto un boutique-hotel di lusso a Betlemme, insieme allo chef Fadi Kattan. Figlia del re degli insaccati Alberto (che a sua volta ha fondato un museo della diaspora nella casa in cui è nata la madre) alleva cavalli ed è la prima presidente donna della Asociación Nacional de Caballos Árabes de Deportes. Mentre la potente Bank of Palestine controllata da Jorge Sabag della omonima dinastia, vende gli appartamenti che molti suoi clienti hanno acquistato a Betsiala a crediti ipotecari agevolati. Kassis lo chiamano l’imprenditore pinochetista ma non è stato un’eccezione. Gli imprenditori palestinesi non simpatizzavano per il governo Allende che aveva espropriato loro gran parte delle fabbriche e salutarono con favore il dittatore-generale a cui dedicavano entusiasti articoli sul giornale Mundo Arabe. Ancora oggi, stando alle stime della Comunità Palestinese, tra il settanta e l’ottanta per cento dei palestinesi è di destra.
A mano a mano che aumentava il loro peso nella società i cilestinos fondavano centri di aggregazione. Nel 1920 è nata la squadra di calcio Deportivo Palestino, che con il tempo è diventata una delle più forti. Da quando si è professionalizzata, nei primi anni Cinquanta, accoglie anche giocatori cileni che sottopone a un corso di formazione sulla situazione in Palestina perché lo slogan è Más que un equipo: todo un pueblo. Seduti sugli spalti dello stadio della squadra La Cisterna, alla periferia di Santiago, il giovane e addetto stampa José Nabzo elenca le iniziative con cui il suo club mantiene attivo il proprio impegno: 36 scuole in tutto il Cile e due in Palestina, una a Ramallah e l’altra a Gaza che adesso è chiusa. E le partite della squadra trasmesse ogni domenica in televisione nel territorio palestinese.
E’ capitato che nella foga propalestinese il Deportivo si spingesse così avanti da scatenare qualche scandalo, come quando ha presentato una maglietta in cui era disegnata la mappa della Palestina prima del 1948. Si sono presi una multa dalla Asociación Nacional de Fútbol Profesional de Chile ma la maglietta è stata un successo internazionale, la più venduta tra quelle realizzate dal club. “Dal 7 ottobre il prestigio del Palestino è cresciuto enormemente, perfino i tifosi del Colo Colo (la fortissima squadra avversaria ndr) hanno esposto sugli spalti dello stadio uno striscione con la scritta Palestina Libre”.
Dieci anni dopo il Palestino nacque il Club di cui è oggi direttore Diego Khamis, mentre è nel 2014 che si forma la Comunità, federazione delle istituzioni palestinesi in Cile, laica e apartitica e la cui causa è coltivare l’identità palestinse. E nel 1989 apre la Escuela Arabe che accoglie oggi cinquecento studenti. Nel quartiere Patronato, a La Recoleta, la chiesa ortodossa di San Nicolás per molti anni fu il punto di riferimento religioso dei primi palestinesi, che erano ortodossi salvo poi diventare cattolici, probabilmente per integrarsi. Intorno si aprono i ristoranti palestinesi e sventolano le bandiere.
Arafat a Pinochet: “Non parlo con un macellaio”
E’ dallo scorso 7 ottobre che Diego non ha più un secondo libero. Impegni ogni momento, incontri. C’è un lato personale e un altro pubblico. Il lato personale è che i bombardamenti a Gaza hanno “ripercussioni molto forti nei cileni di origine palestina”. Tra i compiti ufficiali c’è quello di sensibilizzare i politici alla causa palestinese. Dal 2011 la Comunità ha portato in Palestina 150 parlamentari di tutte le parti politiche. Diego è soddisfatto delle dichiarazioni del presidente Gabriel Boric, che ha condannato la brutalità di Hamas ma è molto duro verso la reazione di Israele. La simpatia dei governi cileni per le ragioni palestinesi è antica. Nel 1947 il Cile si era astenuto nella votazione sulla ripartizione della Palestina e nel 2018 l’allora presidente Sebastian Piñera, di destra, aveva riconosciuto quello Stato. Perfino Pinochet aveva tentato qualche approccio con Arafat, ricevendo una risposta brutale: “Non posso dare soddisfazione a questo macellaio”.
Dopo due ore di intervista Diego mi accompagna a visitare il club. I riferimenti alla causa palestinese sono ovunque. Un grande pannello all’entrata riproduce quattro bambini trasfigurati in angeli e avvolti nella bandiera palestinese. Un altro recita En memoria de los niños de Palestina. È piena estate a Santiago e molte persone si affollano intorno alle piscine sul cui fondo si intravvede, nemmeno a dirlo, la bandiera palestinese.