Criminal for president. Trump 34 volte colpevole

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Guilty as charged”. Colpevole come da accusa. Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America ed attuale candidato repubblicano in vista delle presidenziali del prossimo novembre, è da ieri ufficialmente un criminale. Trentaquattro volte criminale. Tante quante erano le violazioni di legge a lui imputate ed attentamente vagliate, nel corso di un processo durato un paio di mesi, da una giuria popolare formata da 12 cittadini – o concittadini, visti i natali di Trump – della Grande Mela e dintorni.

Molti ricorderanno. Nel marzo dello scorso anno, quando un’altra giuria popolare aveva deciso che esistevano le basi per aprire un procedimento penale contro di lui, Donald Trump era diventato il primo presidente – ex, aspirante tale, o in carica; ed in carica, stando a sondaggi, Trump potrebbe davvero di nuovo essere nel 2025 – chiamato a presentarsi, nelle vesti di imputato, di fronte ad un tribunale penale. Così era cominciata la storia. E così, di record in record, si è ora conclusa (o quasi conclusa, visto che del tutto scontata è una richiesta d’appello da parte del condannato). Fino a ieri Trump era, lungo il quarto abbondate di secolo della storia della più antica – e fino a ieri solida – democrazia del pianeta, il primo presidente-imputato. Oggi è il primo presidente-condannato. O, per l’appunto, il primo presidente ufficialmente dichiarato criminale dalla Giustizia del paese che ha governato e che potrebbe, da criminale, tornare a governare domani.

La più lieve (e controversa) delle sue colpe

E la storia continua, considerato che il processo conclusosi ieri in realtà non è – e di gran lunga – che il meno importante (ed anche il più controverso) dei quattro aperti, per un totale di 89 imputazioni, contro l’ex e forse futuro presidente. Le altre e ben più “politiche” inchieste riguardano, com’è noto, il suo – del tutto ovvio – ruolo nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, i suoi altrettanto palesi tentativi di frode elettorale in Georgia e Arizona durante le presidenziali del 2020; e, infine, l’appropriazione indebita e l’indebito maneggio di documenti top-secret, mesi fa rinvenuti dal FBI là dove mai e poi mai avrebbero dovuto essere. Ovvero: nei bagni e nei più accessibili luoghi della reggia trumpiana di Mar-a-Lago, in Florida. Nonché apparsi, secondo molte testimonianze, nelle mani dell’ex-presidente, intento a mostrali ai più svariati estranei (perlopiù fedeli giunti in pellegrinaggio a Mar-a-Lago).

Ovvia ed inquietante domanda: dovesse Trump – come oggi appare più che possibile – vincere le prossime presidenziali, potrebbe cominciare il suo mandato, non nel mitico “Oval Office” della Casa Bianca, ma dietro le sbarre di una prigione newyorkese? Quasi certamente no. Per quanto processualmente accertati e numerosi, infatti, i crimini a lui attribuiti sono tutto sommato quisquilie. Per non pochi giuristi non avrebbero, anzi, dovuto esser considerati che “misdemeanors”, semplici infrazioni, trasgressioni punibili con pene pecuniarie. Ed anche se valutati come crimini – come di fatto sono stati valutati da due successive giurie popolari, quella che nel marzo del 2023 ha giudicato la loro “processabilità” e quella che ieri ha decretato la colpevolezza del reo – non comportano che molto ridotte pene detentive (un massimo di quattro anni) che, essendo Trump un quasi ottantenne incensurato, molto difficilmente verranno comminate. Il prossimo 11 luglio, data della udienza che dovrà decidere la pena da infliggere al condannato, il giudice Juan Merchant quasi sicuramente non manderà Trump in prigione. L’ex presidente resterà libero. E libero sicuramente resterà fino al giorno delle elezioni, grazie soprattutto al “catenaccio” che – con la complicità di una Corte Suprema o maggioranza ultra-reazionaria e di altri giudici amici – gli avvocati dell’ex-presidente hanno organizzato, obiezione dopo obiezione, rinvio dopo rinvio, in tutti gli altri (e ben più consistenti) processi in corso.

La strategia è chiara e riassumibile in tre banalissime parole: tirare in lungo, allungare i tempi fino a dopo un appuntamento elettorale che per Trump – questo dicono sondaggi significativi e persistenti anche se ancora troppo prematuri per essere una sentenza – potrebbe esser vittorioso. Con l’ovvia prospettiva d’un immediato e multiplo auto-perdono presidenziale. Il che ovviamente rappresenterebbe una nuova – la terza – “prima volta” nella Storia degli Stati Uniti d’America. Nessun presidente, prima di Trump, era stato incriminato, nessuno era stato condannato e nessuno – se questo davvero accadrà – s’era, una volta rieletto, auto-perdonato.

Come Nelson Mandela e il Cristo Redentore

Trump resterà libero. E, libero, continuerà – come già va facendo dal giorno dell’incriminazione – ad usare questa sentenza di condanna come prova del proprio martirio, come la crudele testimonianza dell’implacabile persecuzione che contro di lui conducono forze demoniache che vogliono distruggere l’America. E che, per distruggerla, devono prima attaccare il suo Redentore. “Colpiscono me perché vogliono colpire voi”, ama ripetere Trump ai suoi seguaci. “I am your justice, I am your retribution”, io sono la vostra giustizia, io sono la vostra vedetta. Io, e solo io, posso salvarvi. E per questo mi crocifiggono. Mai avaro e mai timoroso di fronte al ridicolo quando si tratta di esaltare se stesso, Donald Trump non ha, in questi mesi, esitato a paragonarsi a Gesù Cristo – accolto, in questa bestemmia, dagli applausi dei gruppi evangelisti che lo sostengono – e a Nelson Mandela (accolto dagli hurrà dei razzisti nostalgici dell’apartheid che sono una consistente parte del suo elettorato). E questo Trump continuerà, imperterrito, a fare fino al prossimo novembre.

Il che – al di là d’ogni disquisizione giuridica e d’ogni processo concluso o ancora in corso – ci riconduce a quello che è il vero quesito posto, non solo dalla vicenda processuale che, ieri, ha portato alla prima condanna penale di un presidente degli Stati Uniti d’America, ma da tutte le cronache politiche americane degli ultimi nove anni. Come ha potuto un personaggio come Donald Trump arrivare alla presidenza? E come è possibile che, dopo aver perduto la corsa alla rielezione e cercato di rovesciare fraudolentemente (e violentemente) l’esito del voto, questo medesimo personaggio possa oggi, da criminale condannato, legittimamente sperare – superate trionfalmente le primarie repubblicane – di essere rieletto presidente?

L’analisi del processo appena concluso a New York non solo non offre risposte, ma non fa che riproporre in ancor più drammatici termini il quesito. Proviamo a riassumere. Donald Trump era accusato di avere pagato, attraverso il suo avvocato-faccendiere-factotum. Michael Cohen, 130mila dollari a Stormy Daniels, al secolo Stephanie Clifford, attrice, regista e autrice di porno-film, per mettere a tacere, una relazione con lei intrattenuta nel lontano 2016, durante la sua prima (e infine vittoriosa) campagna elettorale. E d’avere poi falsamente dichiarato come generiche “spese legali” questo “hush money”, danaro usato per comprare silenzio, come si dice in gergo. Il che non sarebbe, in sé, che una marginale infrazione d’ordine amministrativo, punibile con una multa. A meno che – ed è qui che la giustizia penale è entrata in gioco – questa infrazione non fosse stata commessa allo scopo di occultare un altro crimine. Nel caso specifico: per far scomparire, contro leggi in vigore nello Stato di New York, una notizia che poteva alterare il corso della contesa elettorale.

Da un punto di vista strettamente giuridico – l’unico, in effetti, che i 12 giurati erano chiamati a considerare – il processo si è giocato lungo il filo di alquanto tediose e ragionieristiche analisi: assegni firmati, note di bilancio, libri contabili, scambi di email e telefonate. Tutte cose meticolosamente raccolte dall’accusa e tutte, pressoché senza eccezioni, tendenti a dimostrare, al di là del proverbiale “ragionevole dubbio”, la colpevolezza di Trump. Da un punto di vista spettacolare il dibattimento è tuttavia vissuto attorno a due testimonianze, entrambe sollecitate dalla difesa: quella di Michael Cohen e quella di Stormy Daniels. Obiettivo degli avvocati di Trump: dimostrare che i due erano bugiardi.

Una linea di difesa suicida, ma obbligata

Era questa, per molti aspetti, una scelta suicida ma obbligata, considerato che Trump sempre ha negato, contro ogni evidenza, d’avere avuto una relazione con la pornodiva. E ancor più, com’è ovvio, d’esser a conoscenza della somma da Cohen erogata alla medesima. Obbligata e, inevitabilmente, disastrosa. Perché tutto quello che gli avvocati di Trump hanno in realtà ottenuto con il loro duplice “terzo grado” è stato sottolineare alcuni dei più squallidi lati del carattere del cliente che difendevano.

Michael Cohen un bugiardo? Certo, perché essere dei bugiardi – vale a dire esser disposti a mentire per difendere il padrone – era (ed è) una condicio sine qua non per lavorare con Trump. Stormy Daniels una bugiarda? Ancor più certo. E per ragioni non propriamente assolutorie rispetto a Trump. Lei ha dunque mentito – hanno contro di lei tuonato gli avvocati di Trump – quando nell’ottobre del 2016, ha dichiarato di non aver avuto alcuna relazione con Donald Trump? “Certo – è stata la pacata risposta di Stephanie Clifford – l’ho fatto perché Donald Trump mi aveva pagato per questo”. Né sono mancati, in questo contesto, siparietti involontariamente comici e, per Donald Trump, particolarmente umilianti. Lei – ha ad un certo punto sottolineato, rivolto a Stormy, il capo del collegio di difesa di Trump, l’avvocato Todd Blanche – è anche una sceneggiatrice di film porno. Il che significa che è abituata ad inventarsi storie erotiche…E Stormy: “Le posso assicurare che, me la fossi inventata, la storia del mio rapporto con Trump sarebbe stata, da un punto di vista erotico, molto, ma molto più interessante”.

Un duro – duro, pubblico e sferzante – colpo all’orgoglio virile di Donald Trump. O, se si preferisce, a quel che resta del rutilante mogul immobiliare che, negli anni Novanta telefonava ai giornali tabloid di New York per millantare, spacciandosi per un suo inesistente addetto stampa, tale John Barron, le sue mirabolanti (e assolutamente fantasiose) conquiste erotico-sentimentali. Tra le sue vittime: Madonna e Carla Bruni. Nonché quella che sarebbe poi diventata la sua seconda moglie, Marla Maples, che – sempre per bocca del fantomatico Barron – fece a suo tempo sapere al New York Post d’avere avuto con Donald – titolo di prima pagina – “il più spettacolare sesso” della sua vita.

Questo era allora Donald Trump. E questo è il Trump che – con il medesimo farsesco squallore e senza alcuna personale redenzione – per la seconda volta corre oggi, da criminale condannato e da Redentore, paragonandosi a Cristo e a Mandela, per la conquista della Casa Bianca. Lo fa alla testa d’una forza fondamentalmente antidemocratica (quello che un tempo fu il partito di Abraham Lincoln) nella quale sono confluite, nell’aberrante forma di culto personale, tutte le più fanatiche correnti cospirative, xenofobe, razziste e bigotte che, da sempre, corrono nelle vene della più antica democrazia del mondo. Come è potuto accadere tutto questo?

La storia che il processo di New York e la condanna di Trump ci hanno raccontato non è, in fondo, che questa: quella della crisi epocale della democrazia USA. Come finirnno (o, peggio, come cominceranno) questa storia e questa crisi lo sapremo a novembre.

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