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Obama, il grande ascoltatore

Quasi certamente, superando le ultime scorie della questione razziale, Obama diventerà il primo presidente americano di pelle nera – Come governerà?

 

1 novembre 2008

di Massimo Cavallini

 

Per chi ha votato, ieri, Barak Obama? Per sé stesso, o per “l’uomo bianco”? La domanda – paradossale e ridicola, ma a suo modo persistente, come la proverbiale pulce nell’orecchio – è tornata alla mente ieri mattina, quando sugli schermi televisivi scorrevano le immagini del candidato democratico mentre, insieme alla moglie Michelle, usciva dal seggio di Chicago, nel quale aveva, come si dice, adempiuto ai suoi doveri elettorali. E non era, quella domanda, soltanto il ricordo d’uno scherzo. Poiché, tre giorni or sono, intervistato dal conduttore del “Daily Show with Jon Stewart” – un telegiornale satirico d’enorme successo – proprio a questo quesito Barack Obama aveva dovuto, tra il serio ed il faceto, dare una risposta. Lei – gli aveva in sostanza chiesto Jon Stewart – è figlio d’un uomo nero del Kenya e di una donna bianca del Kansas. Non teme che, dovesse la sua parte bianca prevalere al momento del voto, il cosiddetto “Bradley effect” possa, all’ultimo istante, spingerla a scegliere John McCain?

No, aveva risposto Obama con un sorriso, lui a votare sarebbe andato, il martedì successivo, senza alcun dubbio di natura razziale. Ed era certo che anche tutti gli altri americani avrebbero fatto lo stesso. Perché, aveva aggiunto Obama, il “Bradley effect” – se mai è esistito – è una cosa del passato, la reliquia di un’America che non esiste più. Insomma: in queste elezioni dell’anno 2008, aveva ribadito, vincerà il migliore, a prescindere dal colore della pelle. Ma poi – stando allo scherzo –non aveva voluto rivelare a chi, in effetti, lui avrebbe dato il suo voto tre giorni più tardi. Col che – dando un’ennesima testimonianza della sua molto pronta ed eloquente intelligenza – il candidato democratico aveva anche finito per rivelare (oltre lo scherzo, per l’appunto) una, anzi due serissime verità. La prima, è che, come sopra, tutto lascia credere che il “Bradley effect” – il fenomeno per il quale gli elettori bianchi dicono nei sondaggi che voteranno per il candidato nero, ma poi, nel proverbiale segreto dell’urna, evitano di farlo – questa volta non funzionerà. E, la seconda, è che proprio questo, il Bradley effect, rimane l’unico (o, quantomeno’ il principale, dovesse contro ogni previsione funzionare) fattore in grado di negare a Barack Obama la gloria del trionfo e, insieme, l’onore e l’onere di diventare il primo presidente di pelle nera nella storia d’una grande democrazia i cui fondatori erano, tutti, proprietari di schiavi.

Salvo una replica del tormentone dell’anno 2000 (improbabile ma, anch’essa, come la vittoria di McCain, non del tutto impossibile) quando questo articolo verrà letto, già si conoscerà in quasi ogni dettaglio l’esito del voto. E non è un azzardo immaginare che, a quel punto, l’America ed il mondo già stiano celebrando una vittoria – e forse persino una vittoria travolgente, per “landslide” come si usa dire – di Barak Obama. Già adesso tuttavia – quando ancora i seggi restano aperti in gran parte del paese – si possono in tutta tranquillità scegliere gli aggettivi che definiscono quest’ ancor sconosciuto risultato. Uno su tutti, scontato, ma, al di là degli esiti, immancabilmente esatto: storico. Storico perché – se, come appare quasi certo, vincerà Obama – la democrazia americana avrà, eleggendo il suo primo presidente nero, cominciato a fare davvero i conti con il proprio “peccato originale”. O, come qualcuno sostiene, sarà finalmente entrata, a dimostrazione di un’intima vitalità, nella fase “post-razziale” della sua storia. E storico perché, dovesse John McCain riuscire a ribaltare le molto tetre previsioni della vigilia, ciò significherebbe l’esatto contrario. Ovvero: che l’America non ha accettato – forse per la prima volta nella parabola d’una democrazia che proprio nella sua “incompiutezza” ha sempre trovato la fonte della sua dinamicità – la sfida del proprio futuro. La più grande rimonta della storia del voto presidenziale – più grande anche di quella, celeberrima, che vide la vittoria di Truman nel 1948 – finirebbe, paradossalmente, per rappresentare anche il più colossale balzo all’indietro, il trionfo di vecchie idee, di vecchi principi. E soprattutto, di vecchie paure. Quella, in particolare, di riconoscere la “diversità” del proprio essere, la cangiante pluralità del proprio mosaico etnico e culturale come motore di progresso. O, meglio: come vera fonte, in ultima analisi, della universalità dei valori di cui l’America, in una “eccezionalistica” visione di se stessa, si crede (a torto o a ragione) portatrice.

Ma non solo di questo parla la storia di queste elezioni. Il presidente Obama è, in effetti, se presidente sarà, molto più del moltissimo che il suo essere primo presidente di pelle nera degli Stati Uniti d’America racconta al mondo. Perché il suo arrivo alla Casa Bianca è, a suo modo, una volta storica che si sovrappone ad una svolta storica. O meglio: ad una realtà che, al di là d’ogni questione razziale, già è, in sé, un cambio d’epoca. L’implosione del sistema finanziario globale – un’implosione i cui effetti ancora è impossibile misurare – è comunque il tramonto d’una visione del mondo, una fine (e, inevitabilmente, un nuovo inizio) con cui anche McCain, dovesse vincere contro ogni previsione, dovrebbe, volente o nolente, fare i conti. Nata per divorare il mondo, la globalizzazione senza freni ha finito per divorare se stessa. Ed ora occorre ricominciare. Ancora è difficile dire da dove, ma occorre ricominciare.

In questi due lunghi anni di campagna elettorale – ovvero: da quando, nel gennaio del 2007, a Springfield, Illinois, Barack Obama ha annunciato, sulle orme di Lincoln, la sua candidatura alla presidenza – molti hanno visto con incredulità crescere quella che sembrava una sfida alle leggi della natura (un nero con un nome da musulmano che corre per la Casa Bianca, mai visto né immaginato). E, nel contempo, hanno invano cercato nei generici programmi e negli ancor più generici slogan di questo “impossibile” candidato – “Yes we can”, “change we can believe in” – qualcosa che corrispondesse alla oggettiva “radicalità” della sua presenza nella contesa. Obama, il candidato del “cambiamento”, appare davvero per molti aspetti – come prima Hillary Clinton e poi McCain hanno senza successo ripetuto – una “tabula rasa”, una pagina bianca, un libro ancora tutto da scrivere. E certo è che, alla base del cambio da lui proposto, c’è una filosofia della conciliazione e non del conflitto. Qualcuno l’ha definito – con più d’una buona ragione – “The great listener”, il grande ascoltatore, contrapposto al “the great communicator”, il grande comunicatore, che fu Ronald Reagan. Quello stesso Ronald Reagan i cui principi – base di un partito repubblicano che appare allo sbando – sono stati sepolti dalla crisi finanziaria.

Barak Hussein Obama, primo presidente nero della storia degli Stati Uniti d’America, e da ieri guida della più grande potenza del mondo, è, in fondo, soprattutto questo: un moderato, un uomo di compromesso chiamato ad affrontare una situazione che, in sé, reclama soluzioni radicali, nuove scelte. Un uomo che ha aperto una nuova pagina di storia e che su questo, sulla sua capacità di rispondere alla crisi del capitalismo globale, verrà dalla Storia giudicato.

Ieri Barack Obama ha probabilmente – come ha lasciato intendere rispondendo alla domanda di Jon Stewart – davvero votato per se stesso. Ora dovrà spiegare – a se stesso ed al mondo – perché l’ha fatto.

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