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Trump, un miliardario con le pezze al culo

Settecentocinquanta dollari (642,25 euro al cambio di oggi). Il 20 per cento d’un reddito annuale che, valutato in appena 3.750 dollari (3.211,90 euro), appare molto – davvero molto – al di sotto della più commiserevole soglia d’estrema e tribolata povertà. Questo è quello che nel 2016 e nel 2017, Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, ha pagato all’Internal Revenue Service, l’agenzia delle imposte del paese che governa. E dovesse qualcuno, a questo punto, esser mosso a pietà da tanto compassionevoli cifre, meglio farebbe ad asciugarsi le lacrime ed ascoltare l’intera storia, riservando la sua misericordia per altre e ben più tristi calamità. Perché, a dispetto delle prime apparenze, il 2016 ed il 2017 sono stati, a tutti gli effetti, per Trump, anni di “vacche grasse”. Anni prima dei quali, per ben 11 volte, tra il 2000 e il 2015, il reddito dell’attuale inquilino della Casa Bianca ha ampiamente, in un florilegio di disastri finanziari, sfondato verso il basso quota zero. Il tutto con l’inevitabile conseguenza d’un altro e rotondissimo zero. Quello, per l’appunto, che definisce la cifra delle tasse da Donald J. Trump annualmente versata alla IRS.

Questo è quanto va in questi giorni rivelando il New York Times, finalmente giunto in possesso – grazie, presumibilmente, a qualche “gola profonda” del medesimo Internal Revenue Service – di quei “tax returns” (le dichiarazioni dei redditi) che Trump, rompendo una consolidata tradizione onorata da tutti i candidati alla presidenza, s’era fin qui ferocemente rifiutato di rendere pubblici. Una bomba, l’hanno chiamata molti. E non v’è dubbio che lo scoop stia facendo un po’ dovunque un gran rumore. Anche se, a ben vedere, a dispetto dell’assordante frastuono di queste ore, l’inchiesta del prestigioso quotidiano – o del “failing New York Times” il fallimentare New York Times, come il medesimo Trump ama chiamarlo – altro non fa che dare un valore certo a variabili che, nell’equazione trumpiana, già erano a tutti note.

Donald J. Trump, il rutilante “real estate tycoon” che ama sovrapporre la sua dorata firma a tutti gli edifici che fa costruire (o che più spesso sponsorizza) in mezzo mondo, il “plurimiliardario” che ogni anno litiga con la rivista Forbes perché non lo inserisce in posizione adeguata nella lista degli uomini più ricchi del pianeta, Trump il re della “Art of the Deal”, l’arte della contrattazione, l’uomo che ha conquistato la Casa Bianca ventilando la sua perizia di geniale e straricco “businessman”, Trump “the short fingered vulgarian” (il gran cafone dalle corte dita, come amava definirlo, negli anni ’80, il direttore di “Vanity Fair”), il personaggio da rotocalco che nell’esibizione della propria ricchezza sempre s’è specchiato come Narciso nelle acque del torrente, ha in realtà – se giudicato dalle tasse che paga – le pezze al culo. O meglio: ripropone, una volta passato al setaccio dei suoi “tax returns”, un semplice dilemma. Chi è Donald Trump? Un impostore che vuol farsi credere molto più ricco di quello che davvero è? O un impostore che, pur essendo ricco, non paga le tasse frodando il paese in cui vive e che da quasi quattro anni governa?

Mandatory Credit: Photo by Andrew Harnik/AP/Shutterstock (10706594d) Bill Christeson holds up a sign that reads “Follow the Money” outside the Supreme Court, in Washington. The Supreme Court ruled Thursday that the Manhattan district attorney can obtain Trump tax returns while not allowing Congress to get Trump tax and financial records, for now, returning the case to lower courts Supreme Court Trump Taxes, Washington, United States – 09 Jul 2020

L’una e l’altra cosa assieme, probabilmente. Ed è anche, anzi, soprattutto, il più indecente testimonial d’un sistema fiscale che sa essere straordinariamente generoso, grazie ad una labirintica jungla di eccezioni (i cosiddetti “loopholes”), con chi può pagare i migliori avvocati fiscalisti. E con chi, potendoli pagare, ha il pelo sullo stomaco necessario per muoversi ai margini della legge. Uno dei punti più scandalosi dello scoop del Times – le cui rivelazioni sono appena all’inizio – è quello che mostra come Trump, non solo non abbia pagato imposta alcuna, o imposte ridicole, per la quasi totalità degli anni presi in considerazione, ma come sia anche riuscito (in che modo lo sta accertando un’indagine in seguito alla quale è più che possibile che Trump debba pagare un colossale multa o, peggio, essere penalmente condannato) ad ottenere dal IRS un rimborso di oltre 72 milioni di dollari per i quattro anni nei quali le tasse le ha pagate.

Trump non paga tasse. Non le paga grazie a detrazioni di spese che, fatte passare per investimenti, non di rado appaiono grottescamente rigonfiate. Tra le più preziose “perle” di questa collezione di imposture: i 70mila dollari usati per “interventi estetici ai capelli” finalizzati alle sue apparizioni televisive come conduttore del reality show “The Apprentice”. Ha commentato ieri il comico Jimmy Kimmel: “Settantamila dollari? Come possiamo affidare l’economia del paese a un presidente che spende una simile cifra per esibire una capigliatura che sembra un parrucchino comprato usato, per due dollari, al mercato delle pulci?”…

Trump non paga tasse perché il sistema glielo consente. E, ancor più, perché il suo “impero economico” non è, a conti fatti, che una sfolgorante finzione. O meglio, anzi, o peggio: perché non è che il prodotto d’una serie di fallimenti fondati su una montagna di debiti. Stando alle dichiarazioni dei redditi pubblicate dal Times: almeno 400 milioni di dollari – soltanto una parte probabilmente dell’ammonto totale – da pagare (difficile immaginare come) entro i prossimi quattro anni. L’unico Trump che, a quanto pare, è fin qui riuscito a produrre qualche profitto, è stato quello che, del “grande businessman”, ha soltanto recitato la parte in televisione. Pura apparenza. Pura simulazione. Visto attraverso il filtro delle sue dichiarazioni dei redditi, Trump si mostra, più che mai, per quello che è: nudo, in tutta la sua inverecondia, come il re della favola di Andersen. E la domanda a questo punto è: quali saranno, ora, gli effetti di queste rivelazioni che, in ultima analisi, non sono che conferme? Quali ne saranno le conseguenze sulla corsa presidenziale? Che cosa cambierà tutto questo? Nulla, quasi certamente. Nulla perché la perversa natura delle relazioni tra Trump e il fisco già era stata, in realtà, ampiamente esposta dalle cronache delle sue bancarotte negli anni ’90 (sei in tutto). E nulla perché nulla è cambiato in questi quasi quattro anni nei quali, con Trump installato alla Casa Bianca, tutto è accaduto.

Trump è il meno trasparente (e certo il più corrotto) dei presidenti Usa. Ed è, al tempo stesso, un uomo senza misteri. La sua popolarità – o la sua impopolarità considerato che i suoi indici di gradimento sono sempre rimasti ben al di sotto del 50 per cento – è oggi (con minime variazioni) la stessa che lo accompagnava alla vigilia delle presidenziali del 2016. Trump era e resta una esplicita, inequivocabile minaccia per la democrazia. E, pur nella loro ovvia indecenza, non saranno i suoi “tax returns” a cambiare il corso della storia.

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