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Sweet Alabama

12 novembre 2004

 

di Massimo Cavallini

 

È una storia che tutti conoscono. Ed è anche una storia che, da tempo, la Storia (quella, proverbialmente, “con la esse maiuscola”) ha archiviato sotto la voce “momenti d’infamia”. 15 giugno 1963. All’ingresso del Foster Auditorium della University of Alabama, a Tuscaloosa, il governatore, George C. Wallace tenta d’impedire l’accesso all’ateneo a due studenti neri, Vivian Malone Jones e James Hood. Ragione legale di quel gesto: la rigida applicazione d’un capitolo della Costituzione dello Stato, la cosiddetta “section 256”, che tassativamente impone la creazione di “scuole separate per ragazzi bianchi e di colore”. Ragione autentica e, peraltro, del tutto esplicitamente esposta dal governatore: la difesa d’un sistema di apartheid che lo stesso Wallace aveva provveduto, cinque mesi prima a magnificare, di fronte al Congresso statale, con una frase entrata negli annali della battaglia per i diritti civili in America: “Segregation now, segregation tomorrow, segregation forever”. Segregazione oggi, segregazione domani, segregazione per sempre.

E tutti sanno, anche, come quella storia è andata a finire. O meglio: come è continuata. Accompagnati dal Deputy Attorney General, Nicholas Katzenbach – inviato sul posto dal presidente John Kennedy – e protetti dalla Guardia Nazionale, i due studenti entrarono nell’ateneo. Ed il fatto a tutti gli effetti rappresentò – come oggi spiega ogni sussidiario – il primo colpo (o uno dei primi simbolici colpi) ad un sistema (quello, per l’appunto, della segregazione razziale) che agli inizi degli anni ’60 ancora era la regola in Alabama ed in tutti gli Stati del Sud. Come dimostra il fatto – ampliamente sottolineato nel giugno dello scorso anno, in occasione del quarantesimo anniversario del “faccia a faccia” tra Wallace e Katzenbach – che oggi il 13 per cento degli studenti del campus di Tuscaloosa è, per ripetere il termine usato dalla Costituzione, “di colore”. Quello che invece pochi sanno è che – dovesse essere la summenzionata Costituzione dell’Alabama a determinare il corso degli eventi – la scena consumatasi tanti anni fa di fronte all’entrata del Foster Auditorium avrebbe potuto, in teoria, continuare a ripetersi ogni giorno, identica, fino a ieri. E, ancor peggio, che tale e quale quella scena potrebbe, in realtà, continuare ripetersi domani, dopodomani e – come profetizzato da George Wallace – “per sempre”. Perché la “ragione legale” avanzata allora dal governatore dello Stato – ovvero la famigerata “section 256”, pur resa ormai inapplicabile da una montagna di leggi federali – è, di fatto, rimasta implacabilmente al suo posto. Ed al suo posto resterà ancora, visto che un referendum popolare, organizzato lo scorso 2 di novembre contemporaneamente alle presidenziali, ha detto – sia pur per un ristrettissimo margine – “no” alla sua abolizione (il riconteggio è ancora in corso, ma nessuno sembra credere nella possibilità di superare la differenza di poco meno di 2000 voti, su 1,35 milioni di suffragi, che, in teoria, ancora potrebbe dare la vittoria ai “si”).

Com’è potuto accadere? Quale perversa ragione ha spinto una maggioranza di elettori dell’Alabama a votare per il mantenimento d’una legge, non solo già entrata nella Storia come un marchio d’infamia, ma anche, all’atto pratico, ormai del tutto inutile? La risposta più immediata – e, a suo modo, anche la più pateticamente ridicola – è quella pubblicamente (e vittoriosamente) sostenuta, nel corso della campagna, dai propugnatori del “no”. I quali – non potendo, per ovvie ragioni di decenza, tornare ad esaltare le virtù d’una, peraltro inapplicabile, segregazione razziale – si sono attaccati al fatto che il referendum proponeva, insieme a quella della “section 256”, anche l’abolizione d’un altro dei capolavori gelosamente preservati nella “Magna Carta” dello Stato: la proibizione di costruire scuole pubbliche (emendamento approvato all’indomani dei fatti di Tuscaloosa proprio al fine di rallentare il processo di de-segregazione aperto dall’ammissione dei due studenti neri). La cancellazione d’un tale divieto – questa è stata la grottesca, ma vincente argomentazione finale contro i “sì” – avrebbe potuto offrire a qualche “giudice federale estremista” il destro per chiedere la costruzione di nuove scuole. Con il risultato d’imporre contemporaneamente, a tutti, un aumento delle tasse…

Fin troppo ovvio, tuttavia, è il fatto che proprio la sedimentazione culturale del razzismo in Alabama è ciò che ha davvero determinato gli esiti del voto e, più in generale, la difesa d’una Costituzione che, del razzismo, è nel tempo divenuta una sorta di mostruoso monumento. Mostruoso per tutto. Per le sue origini, per la sua storia, per le sue dimensioni e – soprattutto – per la sua quasi surreale incapacità di morire. Creata nel 1901 da una Convenzione diretta con pugno di ferro da John Knox, un proprietario terriero che faceva alcun mistero della sua nostalgia per lo schiavismo, la “legge fondamentale” dell’Alabama è l’unica – anche tra gli Stati della vecchia Confederazione – che si sia esplicitamente posta l’obiettivo di “preservare la supremazia della razza bianca”. Ed è l’unica che – nella sua “section 102”, questa se Dio vuole abolita nell’anno 2000 – apertamente proibisce “l’approvazione di qualunque norma che consenta il matrimonio tra persone bianche ed un negro”. Più che una Costituzione, quella dell’Alabama è, in effetti, un documento ideologico, un ormai grottesco assemblaggio di dogmi razziali che ha risposto, per così dire, alla “sfida dei tempi” crescendo a dismisura “dentro se stesso”, accumulando, via via, regole e divieti assurdi, che hanno portato le sue dimensioni oltre ogni umana immaginazione: 310.000 parole per 740 emendamenti, 40 volte quelle usate per la Costituzione degli Usa, molte di più di quelle che Herman Melville ha messo nero su bianco per raccontare l’epica storia di Moby Dick. Una montagna di carta che ancor oggi, se applicabile, impedirebbe di votare a tutti i neri che, a giudizio delle autorità bianche, non hanno “un buon carattere”. E che proibirebbe a tutte le assemblee legislative – specie quelle delle singole contee – di costruire ferrovie, strade o altre infrastrutture (“lavori di miglioramento interno” li chiama la “section 93”), nel timore che una più efficiente rete di trasporti possa contribuire ad inquinare la purezza segregazionista dello Stato.

Riferiscono gli annali come, non un secolo o un decennio fa, ma all’alba dell’anno 2002, il Congresso statale avesse – di fronte al crescere di un pubblico imbarazzo che tuttavia, come s’è visto, non riesce a diventare maggioranza – posto infine all’ordine del giorno la convocazione d’una assemblea per la scrittura d’una nuova e più presentabile Costituzione. Ma la discussione non approdò a nulla. E delle cronache di quel dibattito non restano oggi che un paio d’immagini: quella di Dante Piccini, deputato repubblicano della contea di Mobile che, stringendo la Bibbia in una mano ed il Manifesto del Partito Comunista nell’altra, spiegava come la vecchia Costituzione fosse l’unica barriera capace d’impedire la vittoria del secondo sulla prima. E quella di Sandra Lane Smith, presidentessa della Association for Judeo-Christian Values (parte integrante di quei “valori morali” che, lo scorso 2 novembre, hanno consegnato la vittoria a George W. Bush), che di fronte al Congresso, illustrava le ragioni per le quali la “legge fondamentale del 1901” fosse, ancor oggi, “l’unica cosa che si frappone tra noi e la tirannia”…

Ma per capire davvero l’anomalia dell’Alabama, bisogna, probabilmente, smettere di considerarla un’anomalia. O meglio: bisogna partire da quello che è, per molti aspetti, un elemento costante, cronico o, per l’appunto, “normale” della vita politica e della storia americana. Cominciando, magari, col considerare il più eclatante paradosso della vicenda qui raccontata: George C. Wallace l’uomo il cui volto più d’ogni altro ha simboleggiato nella storia recente il razzismo dell’Alabama, non era, in realtà, affatto un razzista. Era al contrario – racconta Dan T. Carter, autore della più completa biografia del personaggio – un “liberal” ed un progressista, cresciuto nel culto del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. E – prima di diventare il “poster boy” della politica di apartheid – i suoi unici problemi con la legge li aveva avuti nel 1953, per aver preso parte ad una rissa, in difesa d’un giovane negro, durante un match di pugilato. Wallace aveva per la prima volta partecipato alla corsa per la poltrona di governatore nel 1958, con l’appoggio della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People) e della comunità ebrea, sulla base d’una piattaforma moderatamente antisegregazionista. Con il solo risultato di vedersi battuto da John Patterson, un candidato che non faceva mistero alcuno della sua passione per la “supremazia bianca” e della sua iscrizione al Ku Klux Klan. E con la susseguente, solenne decisione, da parte di Wallace, “not to be out-niggered again”, di non farsi più battere da candidati capaci di sfruttare a dovere la “paura del negro” che determina i comportamenti della maggioranza bianca dell’Alabama.

Wallace – che prima di morire, nel 1998, ha fatto ampia autocritica per aver usato l’odio razziale come strumento di potere – non ha in fondo che perseguito, in misura più continuata e, a suo modo, coerente, un principio di “tattica politica” fin dalle origini adottato da tutti i presidenti americani. Come ben spiega un bellissimo libro, “The Nixon’s Piano”, scritto nel 1995 da Kenneth O’Reilly, professore dell’Università dell’Alaska, nel quale si rammenta come proprio alla “paura dell’uomo bianco” ogni pretendente alla Casa Bianca – dal proprietario di schiavi George Washington a Bill Clinton, con le due sole eccezioni di Abraham Lincoln e di Lyndon Johnson – abbia dedicato un più o meno esplicito “messaggio” (per Clinton, nel ’92 governatore dell’Arkansas, si trattò dell’esecuzione d’un minorato mentale di pelle nera). E come proprio la “paura dell’uomo bianco” sia stato, in effetti, l’elemento che, dopo la battaglia per i diritti civili, ha consentito a Richard Nixon di realizzare quello che è a suo modo stato un capolavoro politico dalle strategiche conseguenze. Ovvero: il capovolgimento, a favore del partito repubblicano, dei rapporti elettorali in tutto il Sud degli Stati Uniti.

Lo scorso 2 novembre, George W. Bush ed il suo consigliere Karl Rove non hanno, in fondo, fatto che completare questo capolavoro estendendolo, con religiosi accenti, a tutta l’”America profonda”. Perché sorprendersi, dunque, se, dal profondo dell’America, i bianchi dell’Alabama continuano, tenacemente, a difendere la loro “impresentabile” Costituzione?

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