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Tuesday, April 23, 2024
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Steve Bannon, il “leninista” che rubava dati

“Lo Stato borghese s’abbatte e non si cambia”. Se siete vecchi quanto basta per rammentare il ’68 ed uno dei suoi più abusati slogan di fonte “m-l” (come marxista-leninista, con o senza trattino) – e se vi piacciono i ragionamenti paradossali – proprio da qui potreste proficuamente partire per capire chi davvero sia Steve Bannon (Stephen Kevin Bannon, per l’anagrafe). Ovvero: l’ex super-consigliere del presidente Donald Trump – il suo “Rasputin”, come molti l’avevano a suo tempo fa ribattezzato – il cui nome è in questi giorni emerso, sotto le sinistre spoglie d’un non troppo occulto regista dell’operazione, nelle cronache della vicenda del “furto di dati” operato da Cambridge Analytica (un’impresa che, a suo tempo, Bannon contribuì a lanciare con l’aiuto di potenti finanziatori) nei, pare piuttosto compiacenti, forzieri di Facebook.

Perché proprio così stanno le cose. Sebbene da tutti (e del tutto correttamente) definito un “ultra-conservatore” (nonché un “nazionalista bianco” ed un razzista), Steve Bannon – un personaggio al quale anche i nemici riconoscono una “enciclopedica” cultura – ha sicuramente letto ed apprezzato il Lenin di “Stato e rivoluzione”. Non, ovviamente, per le idee e per i fini politici che ispirarono quel celeberrimo pamphlet, ma per l’appunto – ed in paradossale sintonia con l’interpretazione più estremista e “sessantottesca” del pensiero leniniano – per la carica “distruttiva” che quel libro esprimeva. O, più esattamente: per il convincimento che del “vecchio ordine” – quello che Bannon chiama “the deep State”, lo Stato profondo, o l’establishment – non debba, nel nome della rivoluzione, esser lasciata pietra su pietra.

Va da sé, che la “rivoluzione” propugnata da Steve Bannon non è che un ritorno al passato o, per meglio dire, ad un passato di “americana purezza” che mai è esistito. E che, quando davvero è esistito, altro non è stato, di fronte alla Storia, che un susseguirsi di pagine oscure: quella della supremazia bianca, del razzismo e del cosiddetto “nativismo”, variante americana della xenofobia anti-immigrazione. Steve Bannon è, come di lui ha scritto un anno fa su Dailybeast Ronald Radosh, un suo antico compagno di fede, un “leninista reazionario”. E la sua distruzione dello “Stato profondo” non è – come lo stesso Bannon, a quanto pare, ama sostenere in privato – che “la versione Tea Party (dal nome del movimento di ultra-destra sorto come reazione all’elezione di Barack Obama nel 2008 n.d.r.) della rivoluzione bolscevica”. È un fatto tuttavia che, in questo suo salto all’indietro, Bannon va liberamente toccando tasti tra loro molto diversi e, non di rado, in una sorta di stramba assonanza con il più tradizionale linguaggio della sinistra (non, in  questo caso, quelle “leninista”, da tempo semi-estinta, ma quella “liberal” che tradizionalmente definisce il progressismo americano).

Nel marzo dello scorso anno – nel pieno della sua auge politica come distaccato membro del National Security Council – Steve Bannon aveva spiegato, in una lunga intervista al Wall Street Journal, la vera, personalissima origine di questa sua dottrina anti-establishment, grazie a lui divenuta la “molla ideologica” della campagna elettorale di Donald Trump, la vera chiave, per molti aspetti, della sua imprevista vittoria. Tutto è cominciato, aveva detto Steve, con la triste storia di suo padre, un onesto lavoratore, un uomo cresciuto nei valori forgiati nel corso del New Deal roosveltiano. Marty Bannon, oggi 96enne, aveva per tutta una vita, come suo padre prima di lui, lavorato per la At&t, un gigante, anzi, “il” gigante della telecomunicazione. E dentro l’impresa nella quale aveva consumato la sua intera esistenza era gradualmente passato – lui che aveva dovuto interrompere gli studi dopo la terza elementare – da operaio a “colletto bianco”. Tanta era la simbiosi con l’impresa nella quale s’era guadagnato da vivere – ha raccontato Steve – che, una volta raggiunta la pensione, Marty aveva deciso di investire gran parte dei suoi risparmi nell’acquisto di azioni At&t. Poi, in un giorno dell’ottobre del 2008, ascoltò quel che un in TV andava discettando Jim Cramer, uno dei più loquaci “guru” della gran bolla immobiliar-borsistica di inizio millennio, la cui esplosione dette inizio alla “grande recessione” nella cui coda ancora stiamo vivendo – ed ebbe il torto di seguire i suoi consigli, perdendo infine  tutto quello che aveva. È stato qui, in questa storia di fiducia tradita e di tradizionali valori calpestati – ha detto e ripetuto in quella intervista Bannon figlio – che è nata la rabbia anti-establishement, contro Washington, contro Wall Street, contro ogni élite politica o finanziaria. Ed è da qui – da Marty Bannon, dai milioni di “uomini e donne dimenticati” che la globalizzazione ed un malinteso senso del progresso si sono lasciati alle spalle, prigionieri della propria disperazione – che è partita la lunga marcia di Donald Trump verso la presidenza degli Stati Uniti d’America.

Questo è quel che ha raccontato Steve Bannon. E questo è, in effetti, quel che il mondo intero ha potuto ascoltare, lo scorso 20 gennaio, quando Donald Trump, sulle scalinate di Capito Hill, ha inaugurato la sua presidenza con un discorso che fin troppo chiaramente di Steve Bannon portava la firma. L’America che Trump aveva descritto in quel “inauguration speech” era, a tutti gli effetti, un paese perduto, lo specchio della raffigurazione apocalittica e, insieme, redentrice che Steve Bannon era andato da anni predicando. Un paese abitato da un popolo che, privato d’ogni voce da una élite avida e corrotta, va sopravvivendo, derubato d’ogni sogno e d’ogni speranza, in panorami d’economica ed umana devastazione. Fabbriche chiuse che s’ergono nel deserto come “rugginose tombe”, confini violati da masse di malintenzionati clandestini, città in preda alla violenza di gang e bande criminali, droga, madri in lutto e figli morti….“Questa carneficina americana finisce qui – aveva detto Trump in quello che molti avevano a ragione considerato l’arco di volta dell’intero discorso – e finisce adesso”.

Tutte frottole, naturalmente. A cominciare dalla “esemplare storia” di Marty Bannon, quella grazie alla quale il figlio Steve avrebbe finalmente visto la luce o, se si preferisce, dolorosamente scoperto la “carneficina” di cui sopra. La svolta a destra di Steve, prima come produttore di documentari, poi come direttore della pubblicazione on line Breitbart News – un vero e proprio centro di raccolta della cosiddetta “alt-right”, la “destra alternativa” più razzista, antisemita e xenofoba – data ben prima di quel fatidico ottobre del 2008. Al punto che già allora il fondatore di Breitbart News, Andrew Breitbart, aveva, con molto accurata scelta di parole, definito Steve il “Leni Riefensthal del Tea Party”.

Quantomeno curioso, inoltre, è il fatto che il povero Marty non abbia, per disporre vendere delle sue tanto sudate azioni di At&t, pensato di preventivamente consultare il figlio Steve che, prima di darsi al cinema ed alla comunicazione, aveva a lungo lavorato, in posti di alta responsabilità, proprio nel “ventre del mostro”. Vale a dire: per Goldman Sachs, vero epicentro d’ogni movimento della molto vituperata Wall Street.  E se poi qualcuno volesse davvero misurare la reale profondità dei sentimenti anti-finanza di Bannon, altro non dovrebbe fare che dare un’occhiata al documentario “Generation Zero”, da lui prodotto e diretto nel 2010 e dedicato alla catastrofe finanziaria del 2008. Perché è qui che, consumata un’innocua filippica contro i “poteri forti della finanza, Bannon senza appello attribuisce la responsabilità del disastro – guarda caso in sintonia proprio con i summenzionati poteri – ad una “elite liberal” pronta a spingere i cosiddetti mutui “prime time” per “dare case in proprietà a neri”. Un classico.

Idem per la “carneficina”. Per quanto, infatti, davvero  vi siano fette d’America dove regna una notte non lontana da quella cupamente invocata dal neo-presidente – e per quanto davvero la democrazia americana sia (da tempo o, più probabilmente, da sempre) limitata e corrotta dallo strapotere di élite economiche e politiche – va da sé che tanto il “popolo” al quale Trump intende oggi riconsegnare il potere, quanto il paese in rovina che Trump s’appresta a redimere (come non si sa, ma si sa che sarà “qui e ora”), non sono che molto sbrindellate metafore, opache e assai mediocri invenzioni atte soltanto a far meglio rifulgere i bagliori d’una falsa redenzione e quelli del più falso dei profeti.

Basta, per questo, esaminare la composizione del governo dal “profeta” assemblato per “restituire il potere al popolo”: una combriccola di miliardari, generali e, come nel caso di Bannon, di teorici della cosiddetta alt-right, la “destra alternativa”, che riflette tutte le sfumature, non solo d’una parte, ma della parte peggiore di quel “establishment” di cui Trump pretende d’esser la nemesi.

È in questo mare d’ipocrisia che, nel giro d’un annetto, si sono consumate la irresistibile ascesa e la rovinosa caduta di Stephen Kevin Bannon, “dimissionato” da ogni incarico meno di tre mesi dopo il discorso – il “suo” discorso – col quale Trump aveva varato la barca d’una presidenza fin troppo facilmente definibile come la peggiore, la più mediocre, sguaiata, caotica, polarizzante e pericolosa della storia degli Stati Uniti d’America. E se è vero che il suo destino appare tutt’altro che eccezionale in un’Amministrazione nella quale, in un vorticoso carosello, quasi ogni giorno cade una testa eccellente, vero è anche che nessuno come Steve Bannon è stato divorato dall’ “uomo della Provvidenza” – o dalla caricatura d’un dittatorello da repubblica delle banane – che lui stesso ha, forse più d’ogni altro, contribuito a creare.

La storia è questa. Donald Trump – da tutti i sondaggi indicato come il più impopolare presidente della storia degli USA – ha vinto le presidenziali pur prendendo quasi tre milioni di voti meno della rivale. Questo grazie ad un sistema tanto obsoleto da apparire ormai demenziale – quello dei collegi elettorali – e ad uno spostamento di non più di ottantatremila (83.000) voti nel Wisconsin, nel Michigan e nella Pennsylvania. E non v’è dubbio che proprio al generale Bannon ed alle sue cupe idee di rovina e redenzione si debba la vittoriosa avanzata lungo questo piccolo ma assolutamente decisivo tratto del fronte (tutto all’interno della cosidetta “rust belt”, la più colpita, da almeno mezzo secolo, dal declino dell’America industriale).

Perché, dunque, questo generale vincitore è stato tanto brutalmente messo alla porta? Per una semplicissima ragione: perché non ha saputo gestire la sua vittoria. O, più esattamente, perché non ha saputo (o forse potuto) rispettare le regole che della sua creatura – come d’ogni “uomo della Provvidenza” specie se affetto, come Trump, da un patologico narcisimo – sono l’immancabile corollario: la discrezione e l’adulazione. Dicono che a segnare il destino di Steve Bannon sia stata – molto più che la sua molto pubblicizzata rivalità con Jared Kushner, il genero di Trump – la copertina del settimanale Time che, nel febbraio del 2017, riportava un suo particolarmente scarmigliato primo piano (Bannon ha sempre avuto l’aspetto d’uno che s’è appena svegliato dopo aver trascorso la notte sotto un ponte) sormontato dal titolo: “The Great Manipulator”, il grande manipolatore. “Bannon – aveva immediatamente replicato un piccatissimo Donald Trump – non è che uno che lavora per me”. Più o meno come uno dei portieri in livrea della Trump Tower lungo la Fifth Avenue di Manhattan. O come uno dei “caddy” che portano le borse coi bastoni nei campi da golf di Mar-o- Lago.

E proprio così, come un qualunque portaborse, il “leninista” Bannon è stato licenziato appena qualche settimana più tardi, portandosi appresso un piuttosto greve bagaglio. Tra i molti orrori in valigia: il furto di dati compiuto, a favore della campagna di Trump, da Cambridge Analytica. La sua caduta sembra destinata a continuare fino a raggiungere un aula di tribunale…

 

 

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