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Sonia, donna e latina, tra i “nove re” d’America

27maggio 2009

Di Massimo Cavallini

 

“…e, nel caso tutto questo non fosse sufficiente, Sonia Sotomayor è anche il giudice che, a suo tempo, ha salvato dal tracollo il passatempo preferito dagli americani…”. Dovesse qualcuno raccontare in forma di favola la storia della donna-magistrato che, martedì mattina, Barack Obama ha presentato come sua scelta per la carica di giudice della Corte Suprema (in sostituzione del dimissionario David H. Souter), questa potrebbe essere  l a frase di chiusura; o l’equivalente di quel classico “…e vissero tutti felici e contenti” che, almeno in teoria, fa da preludio all’innocente sonno dei bambini in ascolto. E certo non è un caso che proprio da qui, dal baseball – o meglio, dal fondo della lista – sia, tra il serio ed il faceto, partito il presidente nel corso della cerimonia come da protocollo convocata alla Casa Bianca per comunicare al mondo la sua decisione. Poiché, è indiscutibilmente vero: nel’aprile del 1995, quando ormai da un anno i campionati della major league (chiamatela, se vi piace, la “seria A”) erano sospesi per sciopero (o, più propriamente, per serrata), era stata proprio Sonia Sotomayor, allora giudice della seconda Corte distrettuale federale di New York, a riaprire le porte degli stadi, imponendo ai proprietari dei club – nel nome dei diritti di contrattazione collettiva – di ritornare al tavolo delle trattative con le associazioni dei giocatori. Ed altrettanto vero è che, nel clima di popolare gratitudine ispirato dalla sentenza, il Philadelphia Inquirer aveva in quei giorni molto seriamente proposto di inserire, sotto l’evangelico titolo di “The Savior”, la redentrice, la sua fotografia nella “Baseball Hall of Fame”, accanto a quelle di Joe di Maggio, Jackie Robinson, Babe Ruth e Ted Williams…

Nella “Galleria della fama”, ovviamente, Sonia Sotomayor non è mai entrata. E va da sé, anche, che le vere ragioni per le quali Barack Obama, con rapidissima decisione, ha scelto lei per il seggio vacante della Corte Suprema sono, in realtà, quelle – non solo “sufficienti”, ma decisamente sovrabbondanti – che (gerarchicamente se non cronologicamente) vengono molto “prima” del baseball. Ragioni che, ieri l’altro, di fronte ad una platea plaudente e commossa, il presidente ha – con la consueta, didascalica eppur trascinante eloquenza – elencato una per una.  A cominciare da una storia personale che – fosse il buon De Amicis nato negli States e avesse voluto raccontare il “sogno americano” – avrebbe potuto tranquillamente entrare nel libro Cuore. Titolo dell’ipotetico “racconto del mese”:  “dal Bronx a Princeton. E oltre”.

In brevissima sintesi, procedendo per ordine:  Sonia Sotomayor è, in primo luogo, donna e latina. E se è certo vero che non sono, queste, virtù acquisite per meriti propri, vero è anche che, di queste virtù, la Corte Suprema ha, comunque, un impellente bisogno per assomigliare (“looking like America”) al paese le cui leggi è chiamata ad interpretare. Si dà il caso, infatti che, in 230 anni di storia, solo 2 donne (la Sotomayor, se confermata, sarebbe la terza) e nessun ispano di qualsivoglia sesso, siano entrati nel club. Donna e latina per scelta del destino, Sonia Sotomayor è nata 54 anni or sono – anche in questo caso non per suo merito o scelta – nel Bronx, il più povero e violento dei quartieri di New York City, dove i suoi genitori, originari di Portorico, s’erano trasferiti dopo la seconda guerra mondiale. Ed è certo stato per suo merito e scelta che ha poi percorso, una dopo l’altra, tutte le tappe di una educazione modello, dalle scuole pubbliche delle Bonxdale Houses (un enorme e molto degradato complesso di case popolari, o “projects”, a due passi dal vecchio Yankee Stadium, in piena “gangland”) fino alle migliori università della cosiddetta Ivy League (prima Yale e poi Princeton, dove si è laureata in legge “summa et cum laude”).

Barack Obama ha ieri, da par suo, rammentato i retroscena di questa ascesa. Il padre di Sonia è morto – senza conoscere una sola parola d’inglese – quando la figlia non aveva che nove anni. Ed è stata la madre Celina – una donnetta tanto minuta che, ieri, le telecamere hanno faticato ad individuarla tra le teste torreggianti dei molti “vip” presenti alla cerimonia- a lavorare come infermiera “sedici ore al giorno per sei giorni alla settimana”, per dare ai figli quello che la sorte aveva negato a lei: l’opportunità d’imparare e di crescere in un paese nel quale, ha aggiunto con molto tempestiva retorica il presidente, “nulla è negato a chi davvero vuole imparare e crescere”. In tutte le Broxdale Houses, ha ricordato Obama, non esisteva in quegli anni che una enciclopedia. E quell’enciclopedia si trovava nei due locali dove Selena viveva con i due figli…

Né questo è tutto. Perché anche dal lato meno deamicisiano (e più grettamente politico) della storia, la carriera di Sonia Sotomayor appare impeccabilmente “bipartisan”. La sua prima nomina – quella a giudice del Secondo Distretto della Corte Federale era stata grazie ad un presidente repubblicano, George Bush il Vecchio. E la sua promozione a giudice d’Appello (la carica che ricopre ora) avvenne sotto il democratico Bill Clinton. Dettaglio curioso: il voto di conferma al Senato (allora a maggioranza repubblicana)  venne ritardato di un anno nella convinzione (ovviamente non dichiarata, ma risaputa e, a suo modo, profetica) che, per la sua alta qualificazione,  la Sotomayor  potesse, in prospettiva, diventare una naturale candidata “liberal” per la Corte Suprema.

Nessuno, pena il ridicolo, potrebbe usare, riferendosi alla Sotomayor, gli aggettivi “impreparata” o “incompetente”. Perché Sonia in questi anni ha davvero – volendo tornare al gergo dello sport che è stato da lei “salvato” – toccato “tutte le basi”. Al punto da vantare – ha sottolineato Obama martedì mattina – un’esperienza giudiziaria di gran lunga più ampia e varia di quella sciorinata da tutti gli attuali membri dell’alta corte al momento della loro nomina. Sonia è stata giudice di prima istanza e giudice d’appello, giudice penale e civile in un distretto – quello di New York – dove s’incrociano ai più alti livelli i problemi della chiamiamola così, vita quotidiana e dell’alta finanza. E, per un breve tempo, è stata anche “corporate lawyer “(ha lavorato per uno studio legale che, negli anni 80 rappresentò, tra gli altri, anche gli interessi della Fiat negli Usa). Sonia ha, insomma, fatto di tutto e di più, sempre ostentando grande profondità,  moderazione ed imparzialità (i numeri dicono che, quando ha partecipato alle decisioni di una corte collegiale, nel 95 per cento dei casi la sua opinione è coincisa con quella di giudici di nomina repubblicana). Ed il suo pensiero giuridico, raccolto in una collezione di sentenze che supera ampiamente il centinaio, non può in alcun modo essere definito un  mistero da sciogliere.

Giochi fatti, dunque? Si può, fin d’ora, chiudere il racconto, con il “…e vissero tutti felici…” di cui sopra? No, perché, pur comportandosi spesso da bambini, molti esponenti dell’attuale minoranza repubblicana  (reduci del naufragio dello scorso novembre) non sono affatto innocenti. E, per nulla intenzionati ad andare a dormire,  si preparano alla battaglia. Con quali argomenti? Meglio prendere fin d’ora nota di un nome: “Ricci v DeStefano”. Ovvero: di  un processo – legalmente molto complesso, come tutti quelli relativi al famoso Titolo VII del Civil Rights Act del 1964 -che riguarda un gruppo di aspiranti pompieri di razza bianca di New Haven, convinti (con qualche ragione) di esser stati vittime d’un episodio di “discriminazione al contrario”. In una sentenza d’Appello, la corte presieduta da Sonia Sotomayor, ha un anno fa confermato la sentenza di primo grado che dava loro torto. E, nel mese di giugno proprio la Corte Suprema di cui Sonia dovrebbe diventar parte sarà chiamata a dire una parola definitiva. A destra già s’è udito più d’uno squillo di tromba. E qualcuno dei trombettieri  non ha perso l’occasione per accusare Sonia di avere voluto umiliare, con la sua sentenza, i pompieri tutti. Ovvero: gli eroi del Ground Zero, nel fatidico 11 settembre del 2001.

Insomma, salvo imprevisti, Sonia Sotomayor passerà, probabilmente in autunno, la prova del Senato. Ma prima del suo ingresso alla Corte, le (e ci) toccherà vivere un nuovo (e presumibilmente piuttosto cruento) episodio nello scontro tra la nuova America multirazziale che sta nascendo e la vecchia America bianco-mascolina che non vuole morire. Come si usa dire: ne vedremo delle belle.

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