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Senza Fidel

1 agosto 2006

di Massimo Cavallini

 

Dopo 47 anni, Cuba è senza Fidel. E per capire che cosa questo significhi è forse il caso di partire dalla meno probabile tra le tre ipotesi che ieri, allorquando s’è diffusa la notizia della sua “temporanea” cessione dei poteri, hanno preso a vorticosamente circolare tra i cubanologi d’ogni colore. Ma, in particolare, tra quelli che, a Miami, da alcuni decenni andavano aspettando questo giorno come una sorta di capovolta apoteosi della Storia. La prima – e, se vogliamo, la più banale, di queste tre versioni della realtà voleva (vuole) che, semplicemente, quest’ultima fosse davvero quella che traspariva dal comunicato letto alla televisione da Carlos Valenciaga, fino a ieri assai oscuro “jefe de despacho” – o, se si preferisce, portavoce ufficiale d’una voce considerata non surrogabile – del “líder máximo”. Vale a dire: che davvero Fidel Castro avesse dovuto – con un’urgenza che gli impediva di comunicarlo di persona – essere sottoposto ad un’operazione chirurgica per un’emorragia gastrica causata dallo stress del recente viaggio in Argentina, dove aveva preso parte, nelle vesti di visibilissimo ospite, alla “cumbre” del Mercosur. E che, davvero, fosse stato, per questo, costretto ad aprire una parentesi “di alcune settimane” nella sua lunghissima ed ininterrotta gestione del potere. La seconda ipotesi – più tragica e “cospirativa”, ma per molti versi altrettanto banale – voleva, invece, che Fidel fosse in realtà già morto (o, comunque, morente). E che il comunicato relativo alla “temporaneità” della delega dei suoi illimitati poteri altro non fosse che un trucco per diluire le conseguenze d’un dopo-Fidel a tutti gli effetti già cominciato. La terza ipotesi – quella, per l’appunto, dalla quale è, a dispetto della sua ovvia improbabilità, utile prendere le mosse – delineava invece un ben più machiavellico quadro. Fidel – sostenevano e sostengono alcuni – starebbe in realtà, se non benissimo, quantomeno bene abbastanza per vedere (come recitava una vecchia canzone di Jannacci) “l’effetto che fa” l’annuncio del suo “quasi-funerale”. Non tanto (o non solo) per godersi l’inusitato privilegio di osservare il mondo dopo la sua morte, quanto per allestire una “prova generale” del “vero” passaggio dei poteri. E per quindi riapparire vivo e vegeto (e magari proprio in occasione del vertice dei paesi non allineati programmato per il prossimo settembre all’Avana), certo di avere già visto il film della propria morte, ricavandone utili suggerimenti per assicurare, se non proprio l’immortalità a se stesso, quantomeno la continuità del regime da lui creato.

 

Perché è utile partire da quest’ultima e piuttosto “diabolica” interpretazione dei fatti? Fondamentalmente per un motivo. Perché, a parziale sostegno d’una tanto fantasiosa e contorta tesi, c’è un unico, ma fondamentale fatto. Da alcune settimane il castrismo già aveva cominciato a parlare pubblicamente – in termini impliciti, ma infine sufficientemente chiari – del problema della “successione”. Ed aveva non casualmente affidato a Raúl Castro, da sempre il naturale ed istituzionale erede di Fidel, il compito di compiere il primo passo. Era accaduto lo scorso 14 giugno, allorché, nel celebrare a Las Lajas il 45esimo anniversario della fondazione dell’Ejercito Occidental (ed il discorso è rimasto, da allora, ben visibile nella pagina web del Granma), Raúl aveva solennemente affermato: “Il comandante en jefe della rivoluzione cubana è uno solo. E solo il Partito Comunista, come istituzione che unisce l’avanguardia rivoluzionaria e come garanzia dell’unità dei cubani in tutti i tempi, può essere considerato degno erede della fiducia che il popolo ha riposto nel suo líder”.

 

Insomma: nessuna svolta. Perché Fidel, il comandante en jefe e líder maximo, non può avere eredi, come eredi non ha avuto il guerrillero eroico” Che Guevara. E perché il suo “successore” non può che essere la rivoluzione da lui creata ed incarnata da un Partito Comunista nel quale la linea di successione già è stata da tempo (da sempre, si può dire) definita. Da Fidel a Raúl. Dal primer segretario al segundo segretario. Senza traumi, perché, sebbene mortale, Fidel ha creato qualcosa – una sorta di super-istituzione o di metaforico Principe – che è davvero in grado di garantire l’eternità della “unità dei cubani” e quella del suo regime. Tutto come previsto. Tutto secondo le linee tracciate fin dagli albori della rivoluzione. Fin dai tempi dell’attacco al Cuartel Moncada e dello sbarco del Granma.

 

E tuttavia troppo semplice sarebbe cogliere, in queste parole – ovvia premessa della “prova generale” messa in scena ieri – soltanto un’idea (o un’illusione) d’assoluto (eterno) immobilismo. Il Raúl che s’appresta a raccogliere (oggi stesso o più avanti) il bastone del comando è, infatti, molto più d’un semplice surrogato (o – per usare il linguaggio degli anticastristi, d’una “mummia” più giovane d’appena cinque anni rispetto al cadavere del sovrano). Ed anche il partito comunista cubano – fossilizzato nella sua capacità di vivere oltre il tempo dalle parole del medesimo Raúl – è in realtà, nonostante la retorica che lo sostiene, una creatura molto più complessa di quella che traspare dalla anchilosata riproposizione del mito di sé stesso.

 

Sta circolando da alcuni anni negli Usa (la prima edizione fu pubblicata nel 2003) un interessantissimo libro scritto da un ex analista della Cia, Brian Latell, che affronta con molta serietà (e con la conoscenza d’una vita spesa nelle studio dl “nemico”) il tema del dopo-Fidel. Giungendo a conclusioni che, a Miami, hanno sollevato più d’un comprensibile grido di dolore. Raúl – sostiene infatti Latell – è molto più della semplice ombra d’un monumento. Da un punto di vista militare, organizzativo ed ideologico è stato, anzi, il perfetto complemento della (spesso sregolata e sempre egocentrica) genialità strategica e comunicativa di Fidel. Sebbene del tutto privo del dirompente carisma del “líder máximo” – anzi, probabilmente proprio perché privo del carisma che ha sempre spinto Fidel a vedere il mondo ruotare attorno alla sua personalità ed alle sue ambizioni, o perché, come sostiene Latell, molto più “umano” del fratello – Raúl ha in questi decenni (più di cinque se si parte dal Moncada) avuto un ruolo insostituibile, prima nella conduzione della guerra di guerrilla (la sua colonna, quella che operava nella Sierra Cristal, era di gran lunga la più efficiente) e poi nel consolidamento del processo rivoluzionario. Perché è certo a lui, molto più che a Fidel, che si deve la svolta radicale nei primissimi anni della rivoluzione. E perché è a lui – a Raúl – che si deve la successiva organizzazione delle due super-istituzioni – il partito comunista e, soprattutto, le forze armate – che hanno in questi anni costituito le colonne portanti (non eterne, ma certo solide) d’un regime che, pure, si fondava sugli assoluti ed incontrastati poteri del suo “eroico” fondatore.

 

Ancor più importante; per quanto troppo vecchio per essere considerato un vero “erede”, Rául, uomo più modesto e quindi più politicamente flessibile del titanico fratello, ha davvero creato, almeno nel breve e medio periodo, le condizioni d’un “castrismo senza Castro”. O, addirittura, d’un morbido superamento del castrismo. Chi ha in questi anni atteso la “morte del tiranno” come l’inevitabile avvio d’una “resa dei conti”, ha – probabilmente – sbagliato una volta di più i suoi calcoli. Perché proprio Raúl ha, a suo modo, sempre lavorato per il dopo-Fidel. Non per sostituirlo sul trono, ma per creare le condizioni d’una continuità oggi assicurata – al di là della retorica “eternista” – proprio dal partito (solo un mese fa ristrutturato con la reintroduzione del “segretariato”) e da forze armate che, specie a partire dagli inizi degli anni ’90 – ovvero dal “periodo especial”, cominciato dopo la caduta dell’Unione Sovietica – hanno assunto la direzione di essenziali settori dell’economia.

 

Per concludere: quali che siano le vere condizioni di salute di Fidel (che stia male, malissimo, o che, sorridente, stia assistendo, come l’avaro di Molière, alla rappresentazione della sua morte), l’apocalisse attesa dai cubani (non più di qualche centinaio, in verità) che ieri, a Miami, hanno celebrato la notizia nella “calle ocho”, di fronte al ristorante Versailles, quasi certamente non verrà. E non verrà neanche la “transizione” ipotizzata in quest’ultimo anno, in quella voluminosa rappresentazione di stupidità ed arroganza (in sé molto più vecchia e stantia del regime che pretende di rovesciare) che sono le oltre 500 pagine stilate, a Washington, dalla Commissione per l’Assistenza ad una Cuba Libera. Banalità – come lo stesso Latell sottolinea – condite da uno stanziamento di 80 milioni di dollari il cui unico risultato sarà, probabilmente, quello di far aumentare la repressione contro un dissenso interno che in questi anni, per molte ragioni, non mai riuscito ad assumere dimensioni di massa.

 

Di certo non c’è per il momento che questo: che la festa per l’ottantesimo compleanno del comandante en jefe (programmata per il prossimo 13 agosto) non si terrà (ufficialmente è stata – dal medesimo Castro, attraverso la voce di Valenciaga – rinviata al 2 dicembre, giorno dell’anniversario dello sbarco del Granma). E che il cielo non crollerà – o, almeno, non crollerà subito – su Cuba. Perché la rivoluzione cubana ha, in effetti, la forza per sopravvivere alla scomparsa del suo fondatore.

 

E forse proprio questo è il punto vero che emerge dalle incerte cronache di queste ore: quella che Castro, o i due Castro, hanno mantenuto in questi ultimi tre lustri è, nella sostanza, una strategia di sopravvivenza. Sopravvivenza alle condizioni ed alle speranze che la rivoluzione aveva sollevato. Sopravvivenza al crollo del sistema politico ed economico internazionale nel quale era cresciuta. Sopravvivenza, per molti aspetti, anche alle proprie ragioni morali ed ai propri successi. Sopravvivenza alla negazione di libertà le cui ragioni morali continuano a riemergere perché sono, esse sì, più forti di una rivoluzione che, pure, è stata – se valutata con gli occhi della Storia – una forza di libertà. Nessuno può vivere in eterno. E, ancor meno, sopravvivere a se stesso. Il dopo-Fidel è appena cominciato. E non promette, al momento, nessun cataclisma. Ma qualcosa, primo o poi, dovrà cambiare. Meglio prima che poi.

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