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Sarah Balboa Palin v Joe Apollo Biden

Ovvero: come straperdere un dibattito e sentirsi felici – La candidata a vicepresidente repubblicana ha finito in piedi un confronto che poteva, per lei, essere un capolinea – E tanto è bastato perché i suoi sostenitori la dichiarassero vincitrice

 

13 ottobre 2008

di Massimo Cavallini

 

Sarah Palin ha vinto – e vinto bene – il dibattito vice-presidenziale di giovedì notte. Lo ha vinto alla maniera del primo Rocky Balboa, restando in piedi fino all’ultimo round, di fronte ad un avversario che, come l’Apollo Creed del film, la sovrastava in tutto: classe, esperienza, forza fisica e, soprattutto, conoscenza delle tecniche di combattimento. Come Rocky Balboa, Sarah Palin ha finito il match con il volto tumefatto e strabattuta ai punti, ma – contro tutti i pronostici – ancora sulle sue gambe. E questo era, date le circostanze, il massimo che da lei ci si poteva pretendere. Sarah Palin ha vinto (e Apollo Creed-Joe Biden ha, di conseguenza, perso) perché quella che, spentisi i riflettori del ring, resterà scolpita nell’immaginario collettivo, è, in realtà, soltanto la sequenza finale. Ovvero: l’immagine sanguinante d’un uomo o, nel caso, d’una donna qualunque che ha sfidato perdendo, ma senza cadere, forze superiori. E che, ora, a nome di tutti gli uomini (e donne) qualunque, mostra al mondo le sue ferite, come una prova di dignità e di personale riscatto…

O, almeno, questo è ciò che gli esperti d’immagine della campagna di John McCain (anch’essi indubbiamente impegnati in un impari match contro le forze superiori della catastrofica eredità del presidente in carica) sperano – con qualche ragionevole speranza di successo – di poter vendere al pubblico domani, sulla scia di quello che, proprio in virtù del “fenomeno Palin”, o “palinmania”, era stato preannunciato come il più atteso dibattito vice-presidenziale della storia degli Stati Uniti. L’aggettivo (o il participio passato) “atteso” ed il sostantivo aggettivato “dibattito vice-presidenziale” erano stati infatti a tutti gli effetti considerati, fino a ieri, se non assolutamente inconciliabili , quantomeno in netta contraddizione tra loro. A cambiare il senso d’un appuntamento di norma considerato tra i meno rilevanti della campagna presidenziale, erano tuttavia intervenuti, nelle ultime cinque settimane, molti ed inediti fattori. La scelta di Sarah Palin – da nessuno pronosticata alla vigilia della Convention repubblicana – aveva fatto d’acchito divampare, come un incendio nella prateria a fine estate, gli entusiasmi sopiti della “destra profonda” americana. Ed il disdegno con il quale – dal lato democratico – era stata accolta la discesa in campo della giovane governatrice dell’Alaska, non aveva fatto che attizzare ulteriormente l’incendio.

In breve: l’apparizione sul proscenio di Sarah Palin – donna, fondamentalista cristiana, antiabortista madre di cinque figli, ex-seconda arrivata al concorso di miss Alaska, ex- sindaco di Wasilla (cinquemila abitanti) e, da due anni, semisconosciuta guida d‘uno Stato ultraperiferico che vanta poco più di 600mila abitanti – aveva risvegliato quella che nel politicese americano si chiama “cultural war”, guerra culturale. O, più esattamente: aveva ridato un volto, una voce ed una storia in cui specchiarsi a quei “values voters” che, da gli anni di Reagan, sono lo “zoccolo duro” dell’elettorato repubblicano. E che mai, prima della Convention, erano riusciti a riconoscersi completamente in John McCain. Il discorso di accettazione della Palin era stato, in questo senso, una vera e propria apoteosi, la miccia d’una esplosiva frenesia mediatica che aveva all’istante, per entusiasmo o per curiosità, calamitato tutte le luci dei riflettori (da mesi puntati quasi esclusivamente su “Obama-superstar”). Il tutto con risultati (per i repubblicani ) straordinariamente positivi. A Conventions terminate, infatti, mentre la campagna presidenziale entrava, finalmente, nella dirittura finale, i sondaggi mostravano per la prima volta in testa proprio John McCain.

Una, ed una sola, la ragione del sorpasso: l’ “effetto Palin”. O, più esattamente: la ritrovata capacità, in campo repubblicano, di identificarsi con l’uomo – o con la donna – della strada. Nel caso della Palin nel prototipo della “hockey mom”, la mamma che porta i figli a giocare a Hockey – contrapposto agli spocchiosi intellettuali delle grandi metropoli ed agli odiosi boiardi della capitale altezzosa e corrotta. “Sapete qual è la differenza tra una hockey-mom ed un pitbull? Il rossetto”, aveva detto Sarah al presentarsi di fronte ad un’adorante platea. E, subito, era stato un tripudio…

Poi le cose sono cambiate. E sono cambiate tanto nella realtà – quella vera, della politica e della vita quotidiana – quanto in quella specifica imitazione di realtà che, dopo la Convenzione di St. Paul, s’era condensata attorno alla Palin ed al suo “effetto”. Sulla prima (la realtà vera) è, notoriamente, calata la notte d’una crisi finanziaria dagli apocalittici riflessi. E nella seconda (la finzione del “Palin effect”) si sono infiltrati – maligni e devastanti come i germi d’una epidemia – alcuni elementi di verità. Ben consci della vulnerabilità del mito, gli esperti di campagna di McCain, hanno, in queste settimane, fatto il possibile per mantenere Sarah sotto la classica campana di vetro. Ovvero: hanno fatto di tutto per preservarla dalla curiosità e dalle domande dei media. Ma non hanno potuto evitare un paio di catastrofici incontri ravvicinati. Intervistata prima da Charles Gibson della Abc, e poi di Kathie Couric, della Cbs, Sarah Palin ha offerto testimonianze d’incompetenza ed ignoranza che – condite da svarioni ed imbarazzanti silenzi – in nessuna strada d’America, foss’anche le più “profonde”, potevano essere accettate senza un moto d’orrore. Ed ha in questo modo trasformato la sua immagine di ruvida, ma implacabile e genuina castigamatti di Washington, nella caricatura di se stessa. Con il risultato di veder precipitare, nel giro d’un paio di settimane, i suoi indici di popolarità.

Ed è stata questa Sarah Palin – la macchietta del “pitbull con rossetto” uscita dalla Convention di St. Paul – quella che è arrivata al dibattito di giovedì sera. Per lei poteva essere l’atto finale. Un nuovo, clamoroso passo falso e – come già chiesto a gran voce da alcuni commentatori dell’America conservatrice – McCain avrebbe dovuto prendere in considerazione l’ipotesi di rimandarla in Alaska. Il tutto con un ovvio (per la Palin) risvolto positivo. Le attese erano, per lei, bassissime. Tutto quello che doveva fare per vincere era, per l’appunto, finire il match in piedi, evitare un nuovo, ineludibile K.O. mediatico. E lo evitato, di fronte ad un Joe Biden che, a sua volta, doveva fronteggiare un problema opposto. Ovvero: che doveva evitare ogni gaffe (inevitabilmente ingigantita dalla sua trentennale esperienza) ed ogni atteggiamento che la platea (i famosi uomini e donne della strada) potesse percepire come maramaldesco.

Sarah Palin è stata, a suo modo, molto brava. Lo è stata fin dal primo istante, allorquando, prima ancora che il dibattito incominciasse, ha rinfrescato la sua immagine di “hockey mom” (o, ci si passi l’espressione, di donna del popolo), chiedendo a Biden se poteva chiamarlo “Joe”. Ed è stata brava quando ha evitato di entrare nel merito di questioni a lei, evidentemente, pressoché ignote nonostante le ossessive ripetizioni di queste settimane. Che Sarah sapesse poco o nulla di economia e di politica internazionale, era cosa nota. E l’importante, per lei, era aggirare l’ostacolo, magari traballando, ma senza finire al tappeto come le era accaduto nel corso delle precedenti interviste. E c’è riuscita. Per lunghi tratta ha ricordato – volendo tornare ad una metafora cinematografica, questa volta tutta italiana – lo studente dell’ “Ecce bombo” di Nanni Moretti: quello che, alla Maturità, incapace di rispondere a qualsivoglia domanda, fosse di latino o di filosofia, si lanciava, cavalcando un’onda tardo-sessantottesca, in penose disquisizioni sui “trent’anni di malgoverno democristiano”. Si parlava della crisi dei “subprime”? Lei rispondeva ricordando come fosse tempo di far prevalere gli interessi delle hockey mom e dei “six-pack Joe” (per l’appunto l’uomo della strada) contro “la corruzione di Washington” e l’ “avidità di Wall Street”. Si parlava dell’Iraq? Lei accusava Obama di voler “issare bandiera bianca” contro i nemici dell’America. Il “dibattito” di Sarah Palin, favorito da blindate regole che impedivano ogni tipo di “follow-up”, o di verifica delle risposte, s’è nutrito soprattutto di slogan e di luoghi comuni populisti, di “talking point” mandati a memoria. Gli effetti sono stati talora patetici, specie di fronte alla sobria competenza di Joe Biden (in quest’occasione molto più convincente di quanto fosse stato durante le primarie democratiche). Ma non è mai caduta. E questo può bastare.

La conclusione? Giovedì sera l’ “effetto Palin” – già in coma da alcuni giorni – è, infine, passato a miglior vita. Ma Sarah Palin la candidata vice-presidente è riuscita a sopravvivere. Ed ora la campagna, libera da ogni finzione, riprende il suo corso all’ombra d’una immanente catastrofe economica e d’un problema che, rivelato dall’ “effetto Palin”, con l’ “effetto Palin” non s’è affatto estinto. Barack Obama – che gli ultimi sondaggi danno in crescita non travolgente ma costante – non è ancora riuscito (come già nella lunga maratona delle primarie contro Hillary Clinton) a colmare le distanze tra se stesso e l’ “America profonda” dei bianchi poveri . L’idillio tra “six-pack Joe” e l’hockey mom Sarah Palin s’è interrotto. Ma quello con Obama non è mai cominciato. E questo potrebbe, il 4 novembre, fare la differenza.

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