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Friday, April 19, 2024

Osama chi?

2/5/2011 -“You know, I just don’t spend that much time on him…”. Sa che le dico? Io, semplicemente, non perdo troppo tempo pensando a lui…”. Certo: le Torri Gemelle che crollano, sbriciolandosi tra le fiamme. Certo: la polvere, il sangue, le grida e lo sgomento di quelle immagini che sconvolsero il mondo. Certo, Ground Zero, i pompieri, i resti spettrali di quelli che, fino qualche istante prima, erano stati i più visibili segmenti della più celebre “skyline” del pianeta. Ma forse sono proprio queste parole – che di quelle immagini sono di appena qualche mese meno vecchie, e che, di fatto, equivalgono ad un molto mussoliniano “me ne frego” – quelle che meglio aiutano a capire che cosa davvero rappresenti, oggi, l’uccisione di Osama Bin Laden, annunciata da Obama e dall’America celebrata come una storica vittoria. Era, per l’esattezza, il 16 marzo del 2002, appena 218 giorni dopo la mattanza. E questo – con un’aria di molto supponente arroganza – era stato quel il presidente degli Stati Uniti d’America George W. Bush aveva risposto ad una giornalista che gli chiedeva notizie della caccia al responsabile della strage dell’11 settembre.

Piuttosto ovvie erano per il presidente Usa – già autoproclamatosi, tra le macerie delle Twin Towers, “war president”, presidente di guerra – le ragioni d’una tanto ostentata indifferenza. “L’idea di focalizzare l’attenzione su un solo uomo – aveva detto Bush – prova che c’è ancora chi non comprende “the real scope of the mission”, la vera portata d’una missione il cui obiettivo è quello di sconfiggere il terrore su scala globale. “Terror is bigger than one man”, aveva precisato George W., il terrore è più grande d’un solo uomo. Specie quando si tratta – aveva aggiunto – d’un uomo che, come Bin Laden, è ormai “marginalizzato ed in fuga”. “Sì, è vero – aveva infine concluso “Dubya” con un sorrisino di compatimento –: è un po’ di tempo che non ho sue (di Bin Laden n.d.r.) notizie. E la cosa non mi preoccupa affatto”. Insomma: come Rhett Butler in “Via col vento”, in quel marzo del 2002 anche il presidente degli Stati Uniti in carica rispondeva alla sua Rossella O’Hara (la sprovveduta giornalista preoccupata per gli esiti della caccia all’autore intellettuale degli attentati dell’11 settembre) con il più classico dei: “Frankly dear, I don’t give a damn”. Francamente, mia cara, io me ne infischio. O, per l’appunto: me ne frego.

Quale fosse la missione il cui obiettivo quella giornalista (ed una buona parte del mondo) non afferrava, allora, in tutta la sua “globale portata”, è ormai da molto tempo chiaro. E si tratta della medesima missione che lo stesso Bush avrebbe – in un a suo modo indimenticabile discorso pronunciato il primo maggio del 2003 sulla tolda della portaerei USS Lincoln – dichiarato “compiuta”.  O compiuta almeno nella sua prima tappa, perché a sua volta parte di quella “guerra infinita” che aveva visto nell’attacco all’Afghanistan dei Talebani (paese nel quale Bin Laden viveva e nel quale aveva preparato l’attacco dell’11 settembre) un necessario ma secondario preludio. E che, nel conflitto iracheno (quello, per l’appunto, dichiarato concluso e vinto sulla tolda della USS Lincoln), aveva il suo vero punto focale.

Perché è giusto, anzi, inevitabile ricordare oggi quelle parole pronunciate nove anni fa? Perché proprio in quelle parole c’è – oltre le emozioni dei ricordi e quelle della cronaca – tutta la sostanza della storia che domenica scorsa ha vissuto il suo ultimo capitolo. Osama Bin Laden è stato ucciso, a poco meno di un decennio dal suo più grande crimine, al termine di un’operazione d’intelligenza e di polizia globale. Ovvero: grazie al tipo di operazione che molte voci – vanamente contrapposte alle grida di guerra, anzi di “guerra infinita”, che venivano dalla Casa Bianca – avevano reclamato già dopo l’11 settembre. Per quanto catastrofico nei suoi effetti, quello dell’11 settembre era infatti, se razionalmente esaminato, proprio questo: un attentato organizzato da una rete terrorista internazionale che – fin lì ignorata o sottovalutata proprio dalla Casa Bianca, come avrebbe poi sottolineato anche un’approfondita inchiesta congressuale – andava combattuta con mezzi e metodi appropriati, non mobilitando eserciti e cannoniere.

E, invece, proprio questo è accaduto. Eserciti e cannoniere sono stati mobilitati. Prima in Afghanistan (con, almeno, il plausibile scopo di spazzar via il regime che proteggeva Al Qaeda e di catturare o uccidere Osama Bin Laden), poi in Iraq (una guerra lanciata sulla base di pretesti o di menzogne, le armi di distruzione di massa, i legami tra Saddam ed Al Qaeda), fin dall’inizio vero obiettivo della dottrina di guerra permanente elaborata dai “neocons” che, raccolti attorno al vicepresidente Dick Cheney, dominavano la politica internazionale dell’Amministrazione Bush. Due guerre che – come tutte le guerre – hanno oggi la loro storia, le loro cifre, le loro croci: cinquemila soldati caduti (americani e di tutti gli altri paesi coinvolti). Ed un soverchiante numero di iracheni e di afghani, perlopiù civili, che nessuno s’è preso la briga di contare. Due guerre che continuano. Due guerre – quella in Iraq soprattutto – che hanno riempito quest’ultimo decennio, non combattendo, ma di fatto alimentando il terrorismo al quale si devono la strage dell’11 settembre e quelle che, in Spagna, in Inghilterra o altrove, sono seguite.

Oggi l’America sta ovunque celebrando quello che mai – come anche la Chiesa ha sottolineato – andrebbe celebrato (la morte di un uomo), ma che, da queste parti, la gente vive, con qualche comprensibile ragione, come un atto di giustizia. E molti analisti già hanno cominciato a calcolare quanto la morte di Osama possa favorire – in vista delle elezioni del novembre 2012 – il suo quasi omonimo presidente degli Stati Uniti. Bush, fa notare qualcuno, ha lanciato contro Osama Bin Laden (o con il pretesto di Osama Bin Laden) due guerre. Ma ad uccidere Bin Laden è stato, con un’operazione di polizia, proprio il presidente (di fatto l’anti-Bush) che quelle due guerre sta oggi – tra spesso esasperanti timidezze e tentennamenti, o persino (vedi Guantánamo) con ignominiose ritirate  – cercando di chiudere. Ed anche questo è un – a suo modo poetico – atto di giustizia. O una molto opportuna vendetta della Storia. Da celebrare. Ma da celebrare piangendo.

 

 

2/5/2011 -“You know, I just don’t spend that much time on him…”. Sa che le dico? Io, semplicemente, non perdo troppo tempo pensando a lui…”. Certo: le Torri Gemelle che crollano, sbriciolandosi tra le fiamme. Certo: la polvere, il sangue, le grida e lo sgomento di quelle immagini che sconvolsero il mondo. Certo, Ground Zero, i pompieri, i resti spettrali di quelli che, fino qualche istante prima, erano stati i più visibili segmenti della più celebre “skyline” del pianeta. Ma forse sono proprio queste parole – che di quelle immagini sono di appena qualche mese meno vecchie, e che, di fatto, equivalgono ad un molto mussoliniano “me ne frego” – quelle che meglio aiutano a capire che cosa davvero rappresenti, oggi, l’uccisione di Osama Bin Laden, annunciata da Obama e dall’America celebrata come una storica vittoria. Era, per l’esattezza, il 16 marzo del 2002, appena 218 giorni dopo la mattanza. E questo – con un’aria di molto supponente arroganza – era stato quel il presidente degli Stati Uniti d’America George W. Bush aveva risposto ad una giornalista che gli chiedeva notizie della caccia al responsabile della strage dell’11 settembre.

Piuttosto ovvie erano per il presidente Usa – già autoproclamatosi, tra le macerie delle Twin Towers, “war president”, presidente di guerra – le ragioni d’una tanto ostentata indifferenza. “L’idea di focalizzare l’attenzione su un solo uomo – aveva detto Bush – prova che c’è ancora chi non comprende “the real scope of the mission”, la vera portata d’una missione il cui obiettivo è quello di sconfiggere il terrore su scala globale. “Terror is bigger than one man”, aveva precisato George W., il terrore è più grande d’un solo uomo. Specie quando si tratta – aveva aggiunto – d’un uomo che, come Bin Laden, è ormai “marginalizzato ed in fuga”. “Sì, è vero – aveva infine concluso “Dubya” con un sorrisino di compatimento –: è un po’ di tempo che non ho sue (di Bin Laden n.d.r.) notizie. E la cosa non mi preoccupa affatto”. Insomma: come Rhett Butler in “Via col vento”, in quel marzo del 2002 anche il presidente degli Stati Uniti in carica rispondeva alla sua Rossella O’Hara (la sprovveduta giornalista preoccupata per gli esiti della caccia all’autore intellettuale degli attentati dell’11 settembre) con il più classico dei: “Frankly dear, I don’t give a damn”. Francamente, mia cara, io me ne infischio. O, per l’appunto: me ne frego.

Quale fosse la missione il cui obiettivo quella giornalista (ed una buona parte del mondo) non afferrava, allora, in tutta la sua “globale portata”, è ormai da molto tempo chiaro. E si tratta della medesima missione che lo stesso Bush avrebbe – in un a suo modo indimenticabile discorso pronunciato il primo maggio del 2003 sulla tolda della portaerei USS Lincoln – dichiarato “compiuta”.  O compiuta almeno nella sua prima tappa, perché a sua volta parte di quella “guerra infinita” che aveva visto nell’attacco all’Afghanistan dei Talebani (paese nel quale Bin Laden viveva e nel quale aveva preparato l’attacco dell’11 settembre) un necessario ma secondario preludio. E che, nel conflitto iracheno (quello, per l’appunto, dichiarato concluso e vinto sulla tolda della USS Lincoln), aveva il suo vero punto focale.

Perché è giusto, anzi, inevitabile ricordare oggi quelle parole pronunciate nove anni fa? Perché proprio in quelle parole c’è – oltre le emozioni dei ricordi e quelle della cronaca – tutta la sostanza della storia che domenica scorsa ha vissuto il suo ultimo capitolo. Osama Bin Laden è stato ucciso, a poco meno di un decennio dal suo più grande crimine, al termine di un’operazione d’intelligenza e di polizia globale. Ovvero: grazie al tipo di operazione che molte voci – vanamente contrapposte alle grida di guerra, anzi di “guerra infinita”, che venivano dalla Casa Bianca – avevano reclamato già dopo l’11 settembre. Per quanto catastrofico nei suoi effetti, quello dell’11 settembre era infatti, se razionalmente esaminato, proprio questo: un attentato organizzato da una rete terrorista internazionale che – fin lì ignorata o sottovalutata proprio dalla Casa Bianca, come avrebbe poi sottolineato anche un’approfondita inchiesta congressuale – andava combattuta con mezzi e metodi appropriati, non mobilitando eserciti e cannoniere.

E, invece, proprio questo è accaduto. Eserciti e cannoniere sono stati mobilitati. Prima in Afghanistan (con, almeno, il plausibile scopo di spazzar via il regime che proteggeva Al Qaeda e di catturare o uccidere Osama Bin Laden), poi in Iraq (una guerra lanciata sulla base di pretesti o di menzogne, le armi di distruzione di massa, i legami tra Saddam ed Al Qaeda), fin dall’inizio vero obiettivo della dottrina di guerra permanente elaborata dai “neocons” che, raccolti attorno al vicepresidente Dick Cheney, dominavano la politica internazionale dell’Amministrazione Bush. Due guerre che – come tutte le guerre – hanno oggi la loro storia, le loro cifre, le loro croci: cinquemila soldati caduti (americani e di tutti gli altri paesi coinvolti). Ed un soverchiante numero di iracheni e di afghani, perlopiù civili, che nessuno s’è preso la briga di contare. Due guerre che continuano. Due guerre – quella in Iraq soprattutto – che hanno riempito quest’ultimo decennio, non combattendo, ma di fatto alimentando il terrorismo al quale si devono la strage dell’11 settembre e quelle che, in Spagna, in Inghilterra o altrove, sono seguite.

Oggi l’America sta ovunque celebrando quello che mai – come anche la Chiesa ha sottolineato – andrebbe celebrato (la morte di un uomo), ma che, da queste parti, la gente vive, con qualche comprensibile ragione, come un atto di giustizia. E molti analisti già hanno cominciato a calcolare quanto la morte di Osama possa favorire – in vista delle elezioni del novembre 2012 – il suo quasi omonimo presidente degli Stati Uniti. Bush, fa notare qualcuno, ha lanciato contro Osama Bin Laden (o con il pretesto di Osama Bin Laden) due guerre. Ma ad uccidere Bin Laden è stato, con un’operazione di polizia, proprio il presidente (di fatto l’anti-Bush) che quelle due guerre sta oggi – tra spesso esasperanti timidezze e tentennamenti, o persino (vedi Guantánamo) con ignominiose ritirate  – cercando di chiudere. Ed anche questo è un – a suo modo poetico – atto di giustizia. O una molto opportuna vendetta della Storia. Da celebrare. Ma da celebrare piangendo.

 

 

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