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Nic and Bart, ottant’anni dopo

Dopo otto decenni, l’America non riesce a dimenticare i due anarchici che – colpevoli o innocenti – furono vittime della sua paura – Parlare di Nicola Sacco e di Bartolomeo Vanzetti significa, ancor oggi, parlare soprattutto della “Red Scare” che percorse il paese tra le due guerre. E che ancora scorre nelle vene di una Nazione che vuol pensare a se stessa come “libera e giusta”

 

13 marzo 2007

di Massimo Cavallini

 

“Solo in una stanza d’albergo con Fred, lo implorai di dirmi tutta la verità…e quello che ascoltai, mi gettò in uno stato di panico…mi disse che i due erano colpevoli e mi raccontò, in ogni dettaglio, come lui stesso avesse forgiato dal nulla i loro alibi…”.

Sono passati ottant’anni dal giorno in cui Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti morirono sulla sedia elettrica nel carcere di Dedham, in Massachusetts. E trenta da quando, il 23 agosto del 1977, l’allora governatore dello Stato, Michael Dukakis, ufficialmente proclamò – in quello che venne considerato un atto di pubblico pentimento – il “Sacco and Vanzetti Memorial Day”. Ma forse vale la pena di celebrare questo anniversario partendo proprio dal polo opposto. Ovvero: dall’ultimo dei tentativi di riaprire (o di chiudere per sempre) un caso divenuto, in America e nel mondo, simbolo d’una tragedia nella quale – citiamo dal “proclama” di Dukakis – “le forze dell’intolleranza, della paura e dell’odio” si “sono unite per sovrastare la razionalità, la saggezza e l’imparzialità alle quali deve aspirare ogni sistema giuridico”. Le frasi citate all’inizio provengono, infatti, da una lettera che, poco prima della salita al patibolo dei due condannati, lo scrittore Upton Sinclair apparentemente inviò al suo legale, John Beardsley, narrando del colloquio da lui avuto, in un hotel di Detroit, con Fred H. Moore, l’eccentrico avvocato californiano che, fino alla prima sentenza di condanna, nel luglio del 1921, aveva difeso Nicola Sacco.

Sinclair non è, ovviamente, un qualunque scrittore. Non lo è in assoluto, avendo marcato con il suo “The Jungle” – straordinario j’accuse contro l’industria della carne di Chicago – la storia della letteratura americana. E non lo è, in particolare, nella vicenda di Sacco e Vanzetti, avendo egli proprio al caso dei due anarchici dedicato uno dei suoi libri più famosi – “Boston”, pubblicato nel 1928 – ancor oggi considerato, nonostante si tratti formalmente d’un romanzo, una delle più complete e brillanti ricostruzioni degli eventi che, iniziati il 15 aprile del 1920, con la rapina di South Braintree, culminarono, sette anni, tre mesi ed otto giorni più tardi, con la duplice esecuzione nel carcere di Dedham. Casualmente riesumata, alla fine, del 2005, da un intonso pacco di vecchie carte, quella missiva diceva, o meglio, sembrava dire, due cose inequivocabili e, a loro modo, definitive. La prima: che lo stesso avvocato che, con tanta passione, aveva sostenuto in aula l’innocenza dei due accusati, era, non solo pienamente convinto della loro colpevolezza, ma aveva egli stesso provveduto a fabbricare gli alibi esibiti di fronte alla corte. La seconda: che lo stesso Upton Sinclair, uno dei più celebri sostenitori della causa di Sacco e Vanzetti, aveva, per ragioni d’opportunità politica, deliberatamente taciuto questa verità nello stilare il suo romanzo-inchiesta. Ed in questi termini la “scoperta” era stata prevedibilmente ripresa, agli inizi dello scorso anno, da un buon numero di commentatori di tendenza conservatrice. Piuttosto ovvia la natura “revisionista” della campagna. Sacco e Vanzetti, da ottant’anni additati, a sinistra, come vittime d’una palese ingiustizia, erano in realtà colpevoli al di là del proverbiale “ragionevole dubbio”. E, nel proclamare la loro innocenza, i loro più vocianti ed illustri difensori erano stati – dall’inizio alla fine, ovvero, da Sinclair, a Dukakis, all’America “liberal”o “socialisteggiante” d’ogni tempo – in perfetta e dimostrabile malafede. Dunque: caso chiuso, per la pace d’ogni coscienza. E che Dio, una volta di più, benedica l’America.

Caso chiuso? Di questo documentato ed apparentemente definitivo contrattacco non resta in realtà, ad appena un anno di distanza, che qualche sbiadito ricordo. Perché? Per quale ragione quest’ennesimo tentativo di cancellare dalla memoria collettiva la simbologia del “caso Sacco e Vanzetti” è – nonostante l’evidenza della “confessione” di Sinclair – tanto rapidamente evaporato? Per molte ragioni, alcune contingenti – vale a dire, legate alla natura del documento riesumato – altre di ordine generale, inerenti la vera storia del processo, il suo vero ed ineludibile contesto politico-sociale. Ragioni – le prime e, soprattutto, le seconde, immutate nel tempo – che, a loro modo, offrono un’ideale piattaforma per la celebrazione di un ottantesimo anniversario che ritrova, intatti, tutti i motivi dello sdegno che, il 23 d’agosto del 1927, accompagnarono l’esecuzione di “Nic and Bart”.

Inizialmente citata solo a brani, la lettera di Upton Sinclair – la cui autenticità, peraltro, non è mai stata completamente dimostrata – presentava, infatti, nella sua completezza, un quadro ben più articolato di quel che era a prima vista apparso. Poiché, se vero era che Moore aveva apertamente dichiarato la sua convinzione della colpevolezza dei suoi assistiti – con questo “gettando nel panico” il suo interlocutore – vero era anche che questa rivelazione non era il prodotto d’una loro confessione (né Sacco né Vanzetti avevano mai ammesso, di fronte a Moore, la propria colpevolezza). E vero, soprattutto, era anche che lo stesso Sinclair aveva con molta meticolosità cercato, nelle settimane successive al colloquio, riscontri alle affermazioni di Moore, non trovandone alcuno. Nessuna delle persone vicine all’avvocato californiano, inclusa la moglie, avevano mai avuto il minimo sentore delle convinzioni di Fred nei giorni in cui egli stava “fabbricando alibi”. Ed era stato per questo che lo stesso scrittore, pur comprensibilmente pieno di dubbi, era, infine, giunto alla conclusione – come spiegava a Beardsley – che, quelle di Fred Moore, fossero con ogni probabilità le parole d’una persona risentita (il suo “divorzio” da Sacco, nell’estate del 1921, non era stato propriamente consensuale) ed umanamente molto marcata dall’esperienza del processo (Moore, scrive Sinclair, era da molti anni schiavo della cocaina).

Del resto, chiunque si prenda oggi la briga di andarsi a rileggere “Boston”, può facilmente constatare come il libro lasci, in realtà, irrisolto il problema della colpevolezza o dell’innocenza degli imputati, sottolineando soprattutto gli orrori del sistema giuridico – e del clima politico – che avevano preventivamente condannato, per le loro origini etniche e per le loro idee, non per i crimini a loro imputati, i due uomini seduti alla sbarra.

Questa era – e questa resta, ottant’anni dopo – la vera essenza del caso “Sacco e Vanzetti”. Moltissime, in questo lungo lasso di tempo, sono state le ricostruzioni del processo e del crimine che ne era alla base. E molte – una significativa maggioranza – sono quelle approdate ad una convinzione di assoluta innocenza; altre sono rimaste nel dubbio ed alcune sono, al contrario, giunte alla conclusione che almeno uno dei due imputati – Nicola Sacco – avesse in effetti preso parte alla rapina. Tutte, in ogni caso, appaiono (e non potrebbe essere altrimenti) concordi su un punto: quello che cominciò il 5 maggio del 1920, con il casuale arresto di Sacco e Vanzetti, e che si chiuse il 23 agosto del 1927, con la scarica elettrica che. nel nome dello Stato, li uccise entrambi, non fu in alcun modo – da qualunque parte lo si voglia osservare – un processo giusto. Fu, piuttosto, il più eclatante, sinistro e permanente riflesso di quella che passò agli archivi come “The First Red Scare”, la prima grande “paura rossa”. “Nic and Bart” vennero giudicati, non come due persone sospettate di omicidio e rapina, ma come stranieri ed anarchici. O meglio, come i portatori di quella che una consistente parte d’America considerava un’epidemia mortale, una duplice infezione che veniva dal profondo di un’Europa scossa dalla rivoluzione bolscevica e pronta ad “esportarla”. Ovvero: come “dagoes” – termine dispregiativo usato per definire gli emigranti di origine mediterranea – e come “anarchistic bastards”. Poiché proprio queste furono le parole che il giudice Webster Thayer – l’uomo che doveva garantire la “imparzialità” del processo – ebbe più volte ad usare nei loro confronti nel privato del suo country club.

Spolpata dai quattro decenni di feroci polemiche, e di prove e controprove balistiche (relative soprattutto alla famosa “pallottola numero tre”, secondo l’accusa sparata dalla pistola trovata in possesso di Nicola Sacco , ma mai approdate a risultati definitivi) la storia di Sacco e Vanzetti, resta di una disarmante semplicità. Alle 3 del pomeriggio del 15 aprile 1920, lungo la via principale di South Braintree, un centro della cintura industriale di Boston, due portavalori della Slater & Morril, una delle molte fabbriche di scarpe della zona (in una delle quali lavorava il calzolaio Nicola Sacco), erano stati assaltati ed assassinati a sangue freddo da una banda probabilmente formata da almeno cinque persone. Consistente (almeno per quei tempi) il bottino: quasi 16mila dollari. Le indagini del capo della polizia di Boston, Michael Stewart, si erano subito concentrate sui “circoli anarchici italiani”. Ed era stato nel corso delle indagini relative ad un’auto che si supponeva usata nel corso della rapina (ma poi risultata del tutto estranea ai fatti) che, il 5 maggio successivo, Sacco e Vanzetti erano stati arrestati. Entrambi erano armati. Ed entrambi avevano mentito allorché erano stati interrogati sulla finalità delle due pistole che portavano con sé, e sui loro rapporti con i proprietari dell’auto indagata. La storia del loro processo comincia qui.

E qui, in buona misura, finisce. Perché proprio questa – quella che gli accusatori definirono allora “consciousness of guilt”, l’atteggiamento di chi mente perché colpevole – restò la vera “prova regina” contro i due imputati. L’unica prova, in effetti. Nessuna delle testimonianze oculari risultò decisiva. Molte, anzi, finirono per rivelarsi estorte o manipolate dalle autorità inquirenti (e, in particolare dal District Attoney, Frederick Katzmann). E, in ogni caso, tutte vennero più che controbilanciate – in un processo evidentemente privo, tuttavia, d’ogni equilibrio – da testimonianze che confermavano gli alibi degli imputati. Le prove materiali (soprattutto quelle relative alle armi del delitto) non pervennero che a molto controverse conclusioni (ancor oggi oggetto di accesi dibattiti). Nessun rapporto – di nessun tipo – venne mai stabilito dall’accusa tra i due presunti colpevoli, il bottino di 16mila dollari ed i complici d’una rapina compiuta, per l’appunto, da una banda di almeno cinque elementi. Contro il calzolaio Nicola Sacco – definito un lavoratore di “esemplare onestà ed affidabilità” dal proprietario della fabbrica nella quale lavorava – e contro il pescivendolo Bartolomeo Vanzetti (che al momento del delitto stava, a detta d’una soverchiante quantità di testimoni, vendendo pesce) giocarono soprattutto le bugie pronunciate al momento dell’arresto. Bugie che erano, per molti aspetti, nell’ordine delle cose. “Nic and Bart” non erano, infatti, due stinchi di santo. Erano (per quanto completamente incensurati) parte di un’organizzazione anarchica – quella di Luigi Galleani – che propugnava l’azione violenta. L’ordine di scuderia era, per i “galleanisti”, in caso d’arresto, quello di negare, negare, negare. Per tutta la sinistra, del resto, erano quelli giorni di più che legittima paura. Le retate “antisovversivi” erano all’ordine del giorno, E poche settimane prima, a New York, un anarchico in stato di fermo, Andrea Salcedo, era misteriosamente volato dalla finestra della stazione di polizia…

A scrivere la vera storia del processo – o, se si preferisce, la parte del processo che davvero ha resistito, per la sua intima durezza, alla prova del tempo – non furono in effetti le prove (inconsistenti o, nel migliore dei casi, non conclusive) presentate dagli accusatori, ma le loro parole. Quelle che Frederick Katzmann usò, nel corso del processo, per rinfacciare ferocemente a Sacco – che a malapena parlava inglese – la natura sovversiva, “antiamericana” delle sue idee, ed a Vanzetti la fuga “antipatriottica” in Messico per evitare la leva e, con essa, una guerra che, da anarchico, aborriva. Quelle con cui, prima dell’ultima camera di consiglio, il giudice Thayer senza ritegno invitò i giurati ad essere, come “i soldati che partirono per il fronte”, all’altezza del “dovere patrio” che imponeva loro di “combattere i nemici della nazione”. Cosa che i giurati puntualmente ed eroicamente fecero nelle tre ore che separano il breakfast dal pranzo, sancendo con straordinario ardimento e velocità la colpevolezza dei due imputati. Quelle con le quali Lawrence Lowell, presidente dell’Università di Harvard, chiamato dal governatore del Massachusetts, Alvan Fuller, a dirigere la “commissione di saggi” che – tutta composta da “veri” americani – doveva stabilire se salvare o meno dalla forca i due imputati, con quasi sublime ipocrisia definì “nel complesso corretto” un iter processuale che aveva visto il summenzionato Webster Thayer decidere tutto: la sentenza di condanna, la legittimità dell’Appello, la credibilità della confessione con la quale un gangster portoghese, Celestino Madeiros, aveva a tre anni dalla condanna, attribuito a se stesso ed alla banda di Joe Morelli (sosia perfetto di Nicola Sacco) la rapina di South Braintree; e, persino, alla faccia dei “checks and balances” che sono l’anima della democrazia americana, l’ammissibilità della “legittima suspicione” sollevata nei suoi confronti per i pregiudizi da lui a più riprese testimoniati contro gli imputati. O, ancora, quelle che, con la forza di un macabro epitaffio, l’Attorney General Mitchell Palmer, grande regista del “Red Scare”, pronunciò quando i corpi di Sacco e Vanzetti avevano ormai cessato di friggere sulla sedia elettrica. “Appartenevano ad una banda di cospiratori che attaccavano cittadini con bombe e dinamite. Erano senza Dio che volevano il socialismo”. Insomma: Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti erano due anarchici e dovevano morire. La vera, perdurante ragione del loro processo, della loro condanna e della loro morte è tutta qui.

Ad eseguire la sentenza, poco prima dell’alba del 23 agosto, fu Robert G. Eliot, lo stesso che, solo qualche anno più tardi, in un nuovo lampo di celebrità, avrebbe tolto la vita a Bruno Richard Hauptman, accusato (ingiustamente secondo alcuni) del rapimento e dell’omicidio di “baby Lindbergh”. Fu, il suo, l’ impeccabile lavoro d’un vero professionista del patibolo. Ma, quel giorno, ad abbassare la leva furono in effetti – come avrebbe più tardi sancito il proclama di Michael Dukakis – molte mani. Le molte mani dell’intolleranza, della paura e dell’odio che, allora, muoveva un intero pezzo d’America. E che ancora lo muove. Dopo 80 anni, in quest’America, Nic and Bart continuano a raccontare la loro storia con le parole dei loro carnefici. E continueranno a raccontarla per molti anni a venire.

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