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L’opaca trasparenza di Barack Obama

14 maggio 009

 

Di Massimo Cavallini

 

È giusto che si sappia, ma è meglio che non si veda. Questo è quel che in sostanza ha detto Barack Obama quando, martedì pomeriggio, ha dovuto spiegare le ragioni che hanno spinto la sua Amministrazione ad opporsi – contraddicendo se stessa – alla decisione (di recente sancita da un giudice) di mettere a disposizione del pubblico le foto che crudamente testimoniano il maltrattamento di prigionieri in centri di detenzione in Iraq ed Afghanistan. E grande, prevedibilmente, è stato lo scandalo tra i più “liberal” dei suoi sostenitori. A cominciare da quella ACLU (America Civil Liberties Union) la cui richiesta aveva portato all’ordine giudiziario che, ora, l’Amministrazione Obama dovrà contrastare di fronte ad una Corte d’Appello.

Ovvia domanda: per quale ragione, Barack Obama ha imboccato una strada opposta a quella della “trasparenza” che – in palese contrasto con il suo predecessore – aveva promesso al paese? La prima risposta è, naturalmente, quella che lo stesso Obama ed i suoi collaboratori hanno offerto ai media nell’annunciare l’inversione di rotta. La pubblicazione di quelle foto, hanno sostenuto, non aggiungerebbe nulla di sostanziale alla necessaria denuncia degli abusi, delle torture e delle violenze che, negli ultimi anni, hanno minato il prestigio morale degli Stati Uniti nel mondo. Né la ricostruzione di quel prestigio – che, pure, hanno aggiunto, resta un obiettivo centrale della nuova presidenza – potrebbe trarre alcun valido beneficio dalla visione di quelle immagini. In compenso, la loro diffusione, infiammerebbe – mostrando gli abusi commessi da poche “mele marce” – l’odio verso il complesso delle nostre truppe ancora impegnate in una difficile missione Afghanistan ed Iraq, mettendone a repentaglio la sicurezza. Insomma: trasparenza sì, ma non a discapito della vita dei nostri uomini e donne in uniforme.

Giusto? Sbagliato? Di certo c’è il fatto che, forse per la prima volta, una mossa di Obama ha ottenuto l’assenso entusiasta (o quasi) anche della minoranza congressuale repubblicana, dallo scorso novembre chiusa in una rancorosa politica (o non-politica, come molti la definiscono) d’opposizione. “Nel prendere questa decisione – ha detto John Boehner, numero uno dei repubblicani della House of Representatives – i l presidente ha dimostrato di conoscere la differenza tra l’essere un candidato nella corsa per la Casa Bianca ed essere il comandante in capo della Nazione… È un bene per i nostri ragazzi impegnati al fronte, sapere che il presidente si batte per la loro sicurezza”. E, probabilmente, proprio questo era quello che – sacrificando una non piccola parte della sua immagine di “uomo del cambiamento” – Barack Obama (il quale, è bene non dimenticarlo, è costituzionalmente un centrista pragmatico) andava cercando: una classica “via di mezzo” capace di non intorpidire, pur rendendo più torbida la sua politica di “trasparenza”, i suoi rapporti con l’opposizione e, soprattutto, con i militari. Chiamatelo, se vi pare, un rischio calcolato.

È, infatti, del tutto probabile (o, quantomeno più che possibile) che, alla fine, quelle foto divengano comunque pubbliche. Tanto che, anche ieri – non facendo mistero della propria amarezza per la decisione di Obama – gli uomini dell’ACLU hanno sottolineato come, in effetti, non esistano basi legali per impedirne la pubblicazione. Il che significa che il “ribaltone” del presidente potrebbe facilmente risolversi, domani, in una sconfitta giudiziaria (la quale – paradosso nel paradosso – verrà probabilmente accolta con giubilo, se non dal medesimo presidente, quantomeno da quelli, tra i suoi consiglieri, che più coerentemente si  sono in questi anni battuti contro la politica dei “segreti di Stato”). Contrario ad ogni principio dell’ “obamismo”, tuttavia, proprio a questo serve il “veto” presidenziale:  a definire, con accorto equilibrismo, un alibi di fronte ai militari e a tutti coloro che – a partire dall’ex vicepresidente Dick Cheney, torvamente riemerso dalle tenebre, dopo la pubblicazione dei documenti che denunciavano l’uso della tortura – l’accusano di mettere, con la sua ricerca della verità, a repentaglio la sicurezza della Nazione.

La qual cosa ci riporta al vero nodo del problema. Barack Obama non è come George W. Bush, un “presidente di guerra”. Ma resta un presidente in guerra. Anzi: resta un presidente che ad una guerra da vincere – quella in Afghanistan – ha già, in qualche modo, legato i destini della sua presidenza. “Censurando” le foto delle molte altre Abu Ghraib che hanno macchiato il prestigio della Nazione, Obama non ha fatto, in fondo, che confermare il senso di un’antica massima: quella che ricorda come della guerra – di ogni guerra – la verità sia sempre,  inevitabilmente, la prima vittima.

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