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Friday, April 19, 2024
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Lo strano caso della sparizione di Kamala Harris

C’era una volta una madre che, rimasta vedova, aveva amorevolmente cresciuto i suoi due figli. Poi questo accadde: il primo se ne andò per mare ed il secondo divenne, poco dopo, vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Fu così che la povera donna non ebbe più notizia dell’uno e dell’altro…

È una triste favola, negli USA, quella della vicepresidenza. Ed a raccontarla meglio d’ogni altro è sicuramente stato, con la sobria efficacia dell’autoironia, Thomas R. Marshall, uno che nel nulla di quella carica – una sorta di cilindro nel quale, come i conigli nei giochi di prestigio, spariscono uomini e memorie storiche – ci è rimasto per ben otto anni, tra il 1913 ed il 1921, invisibile protagonista, regnante Woodrow Wilson, di epocali eventi quali la Prima Guerra Mondiale e la nascita, ahinoi alquanto precaria, della Società della Nazioni. Fu proprio Marshall, infatti, a narrare la storia – la sua storia, in effetti – della sventurata vedova di cui sopra. E fu sempre lui a descrivere, con ammirevole sense of humor, la più profonda natura della sua missione in quel di Washington DC. “Il vicepresidente degli Stati Uniti – disse – è come una persona che vive in uno stato di catalessi: non può parlare, non può muoversi, non sente dolore né gioia, ma è perfettamente cosciente di quel che lo circonda…”.

L’insostenibile leggerezza della vicepresidenza

Aveva ragione, Thomas R. Marshall. L’aveva al punto che, in pratica, solo questo di lui resta oggi negli annali: l’acume tagliente con il quale ha saputo attraversare il deserto della vicepresidenza. Questo ed il fatto (null’altro, in realtà, che una minuscola nota a piè di pagina) che fu lui primo vicepresidente a lasciare la Casa Bianca per la magione di One Observatory Circle, dove ancor oggi vivono i “numeri due” con famiglia. Sembra infatti che, avendolo scelto per ragioni di pura opportunità politica, Woodrow Wilson caratterialmente lo detestasse al punto da non sopportare la convivenza in un medesimo edificio. La reazione di Marshall di fronte allo sfratto? “Finalmente avrò un bagno tutto per me”.

Né Marshall fu l’unico – anche se fu indiscutibilmente il più brillante – a descrivere la insostenibile leggerezza del proprio ruolo. Un antico assioma politico vuole che l’unico gesto di qualche (e non propriamente positivo) peso storico compiuto da un vicepresidente sia stato il colpo di pistola con il quale, l’11 luglio del 1804, Aaron Burr (vice di Thomas Jefferson) uccise, durante un regolamentare duello, quell’Alexander Hamilton – allora segretario al Tesoro e, da allora, indiscusso padre “finanziario” della patria – il cui volto fa, da moltissimi anni, bella mostra di sé sui biglietti da dieci dollari. Ed una cosa è certa: il destino di tutti i vicepresidenti – ivi compresi quelli che, poi ascesi alla presidenza, sono, come Theodore Roosevelt, finiti scolpiti nella granitica parete del Mount Rushmore – sempre questo è immancabilmente stato. Sparire. Per poi riemergere solo – quando, loro malgrado, sono stati risospinti in superfice – in forma di burla. Come, venendo a tempi più recenti, è ripetutamente accaduto a Dan Quayle, vice di George Bush padre (celebre l’episodio nel quale, in visita ad una scuola elementare, improvvisatosi maestro, clamorosamente sbagliò lo spelling della parola potato, patata). Unica significativa eccezione: quella di Dick Cheney, vice di George Bush figlio, anche lui come gli altri “sparito”, ma nella sua sparizione da tutti considerato, per molte buone ragioni – non ultima quella d’essersi di fatto autonominato alla carica – una sorta di rasputiniana (e decisamente guerrafondaia) presenza. Fu lui, è opinione di molti, il vero architetto della “guerra infinita” che, dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, marcò – e ancora contraddittoriamente marca – la politica estera degli USA.

È in questo molto evanescente contesto storico che va analizzato l’attualissimo caso di Kamala Harris. Caso anomalo e normale al tempo stesso. Normale, perché normalmente inconsistente, priva di poteri reali e riconoscibili resta la carica che la Harris ricopre. Ed insieme anomalo perché anormalmente finito a quegli “onori della cronaca” che, di norma, sempre sono stati negati – o concessi solo in forma di derisione – ai vicepresidenti in carica. Come tutti gli altri vicepresidenti Kamala Harris è sparita. Ma la sua sparizione ha, questa volta – e non si tratta di un ossimoro – fatto notizia. Più specificamente: come già accaduto a molti suoi predecessori, a Kamala Harris è toccato coprire territori politici insignificanti, o significativamente scomodi al punto che il presidente preferiva non frequentarli in prima persona. Con la differenza che, nel suo caso, tanto l’insignificanza, quanto la scomodità sono, contrariamente a quel che accadeva in passato, diventati oggetto d’analisi e di critiche feroci. Kamala Harris, la “crisi” di Kamala Harris, la rapida discesa dei suoi indici di approvazione, sono oggi – per quanto paralleli alla caduta degli indici di approvazione del medesimo Joe Biden – particolarmente al centro dell’attenzione. Perché?

Un sovrapporsi di “prime volte”

Alle radici di questa “prima volta” c’è ovviamente – volendo ricorrere ad un gioco di parole – una “prima volta”. Kamala Harris è in assoluto la prima donna – ed in aggiunta anche la prima donna “di colore” -giunta alla vicepresidenza. Kamala Haris è considerata – forse più a torto che a ragione – una esponente dell’ala più “liberal”, di sinistra del Partito Democratico. Ed in queste vesti ha finito per suscitare, in forma di speranza o di paura, aspettative che mai prima erano state collegate alla carica che ricopriva. Ancor prima d’essere selezionata come sua vice da Joe Biden, Kamala Harris era da tutti descritta come la “novità”, la nuova forza chiamata a raddrizzare antiche diseguaglianze ed antichi torti. E, proprio per questo, era anche, da subito, diventata il più classico degli stracci rossi, il simbolo della disintegrazione “socialista” che, secondo un partito repubblicano orami trasfiguratosi in “culto di Trump”, attendeva la Nazione sotto la guida, o meglio, sotto la non-guida, d’un Joe Biden descritto come un vecchio rincitrullito manovrato a piacere dalle forze della “Anti-America”.

A questa vicepresidente che, nel cono di luce dei riflettori, rompeva ogni tradizione, Joe Biden ha, in questo primo anno, affidato i più tradizionali dei compiti. Ovvero: i compiti più ingrati, perché privi di importanza o, quando importanti, perché non sorretti da adeguate strategie politiche. Problemi non risolvibili. O risolvibili soltanto per vie lunghe e che, lungo il cammino, quasi mai portano, nel corto e nel medio periodo, alla popolarità. Su tutti: il problema della immigrazione e della “sicurezza delle frontiere”.

Tijuana, Mexico, March 29 – Migrants and workers gather on both sides of the iron and steel wall that separates the border between Mexico and the United States in Playas de Tijuana.

Di questo si è dovuta occupare Kamala Harris. E l’ha dovuto fare sulla base d’una politica che cambiava tutto e non cambiava niente. Che cambiava tutto perché, almeno nella “filosofia”, rivoltava come un guanto – dalla crudeltà all’umanità – l’impostazione trumpiana del problema. I precedenti sono noti. Donald Trump aveva, della questione, un’idea semplice e meschina. Trumpianamente semplice e trumpianamente meschina. Per tenere lontani dai confini degli USA i migranti che dal Centro America marciano verso il Rio Grande, bisogna far loro del male. Occorre farli soffrire. Per questo, Trump aveva separato i bambini dalle loro famiglie. E per questo quei bambini li aveva chiusi in gabbie come animali. Per questo aveva, in combutta col presidente messicano Andrés López Obrador, varato la politica “stay in Mexico”. Joe Biden ha invece, nella misura in cui stato possibile, aperto gabbie e ricongiunto famiglie. Ma – a fronte d’un problema diventato di nuovo esplosivo – non ha cambiato nulla di sostanziale rispetto al suo predecessore. Stay in Mexico, resta in Messico, rimane, al di là delle parole, la risposta al problema.

“Don’t come”, restate in Messico…

Ed è di questa risposta che Kamala Harris si è fatta portavoce, mesi fa, nel corso della sua visita in Guatemala. Una visita scandita da due scarne parole – “Don’t come”, non venite, restate dove siete – accompagnate da molto fumosi accenni a strategie tese ad “andare alle radici” del problema. Costretta dalle circostanze in questa terra di nessuno – o in questo deserto di nuove idee – Kamala è inevitabilmente diventata una sorta di punchball, presa pugni da sinistra per la mancanza di coraggio e da destra perché, come ogni giorno le viene rinfacciato, mai è andata a visitare la frontiera, dove contro le orde barbare che si vanno approssimando, si giocano i destini d’America.

I sondaggi d’opinione assegnano oggi a Kamala Harris indici di popolarità inferiori al 40 per cento (in alcuni casi addirittura inferiori al 30). Ed è certo che la discesa dei consensi – in effetti cominciata proprio con la sua deficitaria performance in Guatemala – viene oggi letta da gran parte dei media come un rapido appassirsi delle speranze di cui la vicepresidente era assurta ad emblema. Le cronache ogni giorno riferiscono di defezione nel suo team di consulenti politici ed ogni giorno commentatori e columnist d’ogni colore politico vanno discettando sulle sue rinsecchite chance presidenziali nel caso Biden – ormai 79enne – non si ripresentasse alle elezioni nel 2024.

Kamala Harris, sostengono non pochi osservatori, è oggi un problema per Joe Biden. Ed altri ribattono affermando che, al contrario, è Biden ad essere un problema per Kamala Harris. Ovvero: che la vicepresidente – “sparita”, come vuole la tradizione, ma più che mai visibile – è in realtà il capo espiatorio d’una politica, quella dell’attuale Amministrazione, deficitaria giusto negli snodi che, non per caso, proprio alla Harris sono stati affidati. La verità, ovviamente, è che tanto i problemi di Biden – oggi il più impopolare presidente nel suo primo anno di governo, con la sola eccezione di Donald Trump – quanto quelli di Kamala Harris sono figli di una situazione inedita e paradossale. Mai, dopo una vittoria nella corsa presidenziale, il Partito Democratico aveva lanciato un tanto profondo – e tanto necessario, sullo sfondo della pandemia – programma di trasformazione sociale e di espansione della spesa pubblica. E mai aveva avuto, per farlo, una tanto risicata maggioranza. Quando, a suo tempo Franklin Delano Roosevelt lanciò il New Deal, e quando, più tardi Lyndon Johnson elaborò la sua “Great Society”, erano entrambi, di fatto, padroni del Congresso. Oggi Biden può contare su una risicatissima maggioranza di 23 voti alla Camera e di appena un voto – quello, per l’appunto di Kamala Harris – nel Senato.

Il tutto nella prospettiva di elezioni di mezzo termine che, con ogni probabilità, ribalteranno questa fragilissima maggioranza, e sullo sfondo di una nazione nella quale – come il trumpismo ha rivelato tanto nella vittoria del 2016, quanto nella sconfitta del 2020 – la democrazia ha cessato d’essere un valore compartito. Mai l’America aveva avuto tanto bisogno di riforme per sopravvivere. E mai tanto esigue erano state le forze per ottenerle. La stella di Kamala Harris sta, forse, per spegnersi. Ma è la democrazia americana – la “più antica del mondo” – quella che davvero rischia di restare al buio.

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