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Le non geometriche geometrie del Grande Geometra

La “nuova geometria del potere” prospettata da Chávez non è che il nuovo vestito di una “dittatura costituzionale” cucito su misura per un “uomo della Provvidenza”

 

21 agosto 2007

di Massimo Cavallini

 

La geometria ed il Geometra. Scritta molto discretamente con la minuscola e – a dispetto del suo nome – per nulla “geometrica”, la prima. Obbligatoriamente maiuscolo, visibilissimo ed immancabilmente preceduto dall’aggettivo “grande”, il secondo. La nuova riforma costituzionale venezuelana – o la nuova Costituzione tout court, come molti sostengono – è in fondo tutta racchiusa tra questi due correlati termini. Perché proprio così Hugo Rafael Chávez Frías, presidente della Repubblica Bolivariana del Venezuela, l’ha presentata lo scorso 15 agosto di fronte ad un’Assemblea Nazionale esclusivamente composta da suoi sostenitori: come una “nuova geometria del potere”. O meglio: come una geometria inedita ed ambiziosissima, formulata in termini contorti e talora persino cervellotici, ma “gramscianamente” destinata (parola di Chávez) a consolidare il nuovo “blocco storico”, assestando un’ultima spallata “al vecchio regime che non vuole morire”. E, nel contempo, come un potere che, condizione indispensabile per realizzare il disegno di cui sopra, deve restare tutto e per lungo tempo – almeno fino al 2021, secondo anniversario della battaglia di Carabobo che regalò al Venezuela l’agognata indipendenza dalla Spagna – nelle mani d’un sol uomo. Le sue, ovviamente. Quelle del Grande Geometra. O, per usare le sue stesse parole, quelle del “Grande Pittore”.

Ecco, per avere – al di sopra (o al di sotto) delle inevitabili complicazioni delle dottrine giuridiche e della filosofia politica – un’idea chiara di quel che davvero è la riforma costituzionale proposta da Chávez, vale forse la pena di partire proprio da qui: dalla metafora del “Grande Pittore” che lo stesso Chávez, complice un piccolo contrattempo, elaborò ai primi di settembre, nel corso di uno dei suoi maratonici “Aló Presidente”. Il contrattempo fu quello provocato dalla domanda che un giornalista di “The Guardian”, Rory Carrol, con certa impertinenza rivolse al grande conduttore dello show televisivo (Chávez medesimo). Per quale motivo – aveva chiesto Carrol, evidentemente ignaro del carattere liturgico della manifestazione – la nuova costituzione vede il pericolo della nascita di piccoli caudillos locali, ma non quello d’un grande caudillo nazionale seduto in permanenza a Palazzo Miraflores? Ovvero: perché la proposta di riforma concede al presidente un privilegio – quello della rieleggibilità permanente (unico nella realtà latinoamericana) – che con forza nega, invece, ai poteri locali (governatori, sindaci etc.)? E del tutto rivelatrice – in perfetto stile chavista – era stata la risposta dell’interpellato. Visibilmente contrariato per la crepa in un cerimoniale di norma osannante, il presidente bolivariano aveva prima riversato sul giornalista – irlandese di nazionalità e fervente repubblicano – tutte le storiche colpe della corona britannica (“notoriamente vitalizia e non eletta”), culminate nell’ancora impunito peccato del “furto delle isole Malvine”. E, quindi, così aveva spiegato le ragioni per le quali a lui (e soltanto a lui) doveva toccare il destino (l’onore e l’onere) della rielezione infinita. La rivoluzione – aveva detto in sostanza il presidente bolivariano – è come un grande quadro, un’opera d’arte firmata che un solo artista deve dipingere dall’inizio alla fine.

E qui, davvero, si potrebbe anche chiudere il discorso. Perché Chávez – al di là delle molte ambiguità e delle ovvie contraddizioni del suo progetto politico – almeno su questo punto è sempre stato, con quasi caricaturale immodestia, assolutamente chiaro: quale che sia il quadro, quali che siano le idee, i soggetti e gli oggetti del dipinto, essi possono acquistare vita e forza solo se, a dipingerli, è il suo (suo di Chávez) pennello. C’è qualcuno disposto a credere, aveva in quell’occasione lasciato intendere il presidente-artista, che i risultati finali sarebbero stati gli stessi se, nel dipingere la Cappella Sistina, Michelangelo avesse abbandonato l’opera a metà cammino, affidandone ad altri la conclusione? Evidentemente no. Così come inimmaginabile è che il “socialismo del XXI secolo”, soggetto del dipinto che il grande pittore-geometra, Hugo Rafael Chávez Frías, ha cominciato nel 1998 (o ancor prima, quando, nel 1992, tentò il colpo di stato militare), possa essere completato da mani, o da pennelli diversi.

Da qui, da questo principio (o da questo atto di fede assoluta nel grande leader), parte di fatto la riforma costituzionale che domenica – dopo una campagna elettorale lampo, caratterizzata da una massiccia partecipazione di tutti i poteri dello Stato a favore del “sì” – verrà sottoposta al voto dei venezuelani in due blocchi distinti (i 33 originali emendamenti proposti dal presidente, più i 36 aggiunti dall’Assemblea Nazionale). E da qui non può non partire anche l’analisi, positiva o negativa, del suo significato. L’ex tenente colonnello dei paracadutisti Hugo Chávez vede se stesso come un uomo della Provvidenza. E come un uomo della Provvidenza parla, si muove e decide, in un curioso “mix” di mistica ampollosità – la sua biografia è già stata trasformata in oggetto di culto – e di furbesca ciarlataneria. Un esempio, il più ovvio. Il testo della riforma costituzionale era stato da Chávez presentato ai fedelissimi dell’Assemblea Nazionale (“Non spaventatevi, si tratta solo di 33 articoli su 350”) come il semplice aggiustamento d’una Costituzione dal lui stesso definita “perfetta” (quella approvata nel 1999, con un’alta percentuale di consensi, ma con una bassissima, appena il 30 per cento, partecipazione al voto). E, al tempo stesso, come l’indispensabile chiave d’una inarrestabile rivoluzione istituzionale e politica. (“È giunta l’ora bicentenaria! Adesso! Avanti verso il socialismo!”, recita il titolo della proposta).

Una doppia rivoluzione, per molti aspetti. Perché quel che più immediatamente risalta dalla lettura comparata – spesso faticosa – dei vecchi e dei nuovi articoli è l’ovvia esistenza di due ben distinte (anche se intimamente interconnesse ed interdipendenti) aree. La prima – quella che definisce i poteri del Grande Geometra – chiarissima, inequivocabile e perentoria. A cominciare, ovviamente, dall’articolo 230 – quello che toglie ogni limite al numero dei mandati presidenziali, elevandone da sei a sette anni la durata – sul quale si sono fin dall’inizio concentrate le polemiche. La seconda – quella che, invece, traccia la geometria “rumbo al socialismo” – composta, al contrario, da concetti fumosi e pressoché impercettibili, nebbiosi percorsi senza identificabili punti d’arrivo, una sorta di bla-bla-bla filosofico-sociologico i cui effettivi contorni costituzionali è quasi impossibile definire.

Proviamo a vedere. Le parti della riforma che più direttamente connettono con la prospettiva del famoso “socialismo del XXI secolo”, sono fondamentalmente due. Quella che (negli articoli 112, 115, 299 e 300) dà forza costituzionale ad un “Nuovo Modello Produttivo” misteriosamente identificato come “intermedio, diversificato ed indipendente”, nel quale alla proprietà privata (mantenuta, ma in termini molto più vaghi che nel testo del ’99) si affiancano cinque e – per i tre quinti – assai astratte forme di proprietà pubblica: la statale, la mista, e poi la comunale, la sociale, la collettiva. E, soprattutto, quella che – nel nuovo articolo 16 – illustra l’organizzazione del territorio che più compiutamente riflette, per l’appunto, la “nuova geometria del potere”. Leggiamola: “L’unità politica primaria dell’organizzazione territoriale nazionale sarà la città, intesa questa come un insediamento della popolazione all’interno del Municipio, e integrata da aree o estensioni geografiche chiamate “Comunas”. Le Comunas saranno cellule geo-umane del territorio e saranno formate dalle Comunità, ognuna delle quali costituirà il nucleo spaziale di base ed indivisibile dello Stato Socialista Venezuelano, dove i cittadini e le cittadine avranno il potere per costruire la propria geografia e la propria storia. A partire dalle Comunità e dalle Comunas, il Potere Popolare svilupperà forme di aggregazione comunitaria politico-territoriale che saranno regolate dalla legge, e che costituiranno forme di autogoverno e qualsiasi altra espressione della democrazia diretta…”.

Qualcuno potrebbe a questo punto – nonostante la farraginosità dell’enunciazione – cominciare a sentire un non del tutto spiacevole odore di utopia. Dopotutto è di autogoverno e di democrazia diretta che si parla, due concetti che – in modo confuso, ma tutto sommato nobile – sembrano proiettare il socialismo del XXI secolo verso frontiere sconosciute, affascinanti. Ed affascinanti proprio perché definite (o indefinite) in forma sperimentale ed aperta, come una sorta di “rivoluzione permanente” – teoria quest’ultima, che Chávez ama richiamare con diretto riferimento a Trotsky -, o come l’inafferrabile riflesso d’una società che fa del cambiamento radicale, geografico e politico, la sua vera ragion d’essere, rifiutando d’imbalsamare se stessa in una definita realtà istituzionale. Panta rei, insomma, tutto scorre. Come nella teoria filosofica di Eraclito, nella nuova Costituzione chavista, l’essere s’identifica con il divenire, lasciando nelle mani del popolo le chiavi di questa permanente trasformazione.

Nelle mani del popolo? O nelle mani del Grande Geometra? Il momento della verità viene – o almeno è venuto per chi scrive – durante la lettura dell’articolo 136, vero cuore della proposta. Recita l’articolo: “Il popolo è depositario della sovranità e la esercita direttamente attraverso il Potere Popolare. Questo non nasce dal suffragio, né da alcuna elezione, ma nasce dalla condizione dei gruppi umani organizzati come base della popolazione…”. Difficile da capire? No, perché chiarissimo, in realtà, è il concetto di fondo: il voto – il principio in base al quale il suffragio è alla base della democrazia – non conta più. Non conta al punto che non pochi storici del diritto hanno a questo proposito richiamato un significativo precedente: quello della Costituzione del 1931, varata dal generale Juan Vicente Gómez, il “Benemerito” dittatore che governò con pugno di ferro il paese dal 1906 al 1935, anno della sua morte. “La sovranità – diceva quella Carta Magna – appartiene al popolo, che la esercita per mezzo del poteri pubblici”. Cambiate l’espressione “poteri pubblici” con “potere popolare” e il prodotto non cambia. Altro che “socialismo del XXI secolo”, altro che autogoverno delle masse. Quello che la nuova riforma davvero fa è, oltre l’indiscreto fascino delle parole, chiudere (e chiudere all’indietro) il cerchio d’una “dittatura costituzionale” nella quale continueranno probabilmente ad esistere un’opposizione, periodiche elezioni e limitati diritti d’espressione, ma nella quale – come ai tempi di Juan Vicente Gómez, o come nel regime “priista” messicano – tutte le regole giocano, in realtà, a favore di chi governa. Questo è quello che, a conti fatti, prospetta la nuova riforma costituzionale. Non un passo verso forme inedite e partecipative di democrazia, ma una scivolata verso l’ingessatura caudillista del chavismo. Non un modo per valorizzare gli elementi nuovi e positivi, le speranze suscitate dalla discesa in campo di nuove forze sociali (merito originario dell’ascesa al potere di Chávez), ma un modo per ucciderle. Non il socialismo, ma – in un dejá vu insieme tragico e farsesco – il potere d’un solo uomo.

Parafrasando la più abusata massima andreottiana, si può tranquillamente affermare che, oltre le nebbie della democrazia diretta, dell’autogoverno e del Poder Popular, il potere, così come delineato dalla riforma, appartiene a chi ce l’ha. Ovvero: al presidente bolivariano Hugo Chávez Frías. Lo stesso Hugo Chávez Frías che, con la nuova Costituzione, trasforma le Forze Armate, in parte della “sua” rivoluzione. Lo stesso Chávez che già controlla la magistratura e che, attraverso PDVSA, gestisce in toto, e senza controlli contabili di sorta, le enormi risorse della “bonanza petrolera”. Lo stesso Chávez che, in questi mesi, sta creando, con la formazione del PSUV un nuovo partito-stato a guida carismatica. Lo stesso Chávez che, giorni fa, nel corso di un comizio di propaganda a favore del “sì“ nel referendum, così ha definito se stesso: “Incorruptible, inchantajeable, indispensable”. Incorrompibile, non ricattabile, indispensabile”. L’aggettivo “infallibile” non è, per il momento, arrivato. Ma facile è immaginarlo già seduto in anticamera, pronto alla prossima, inevitabile chiamata.

Nel 2012, quando scadrà il suo attuale mandato, Hugo Chávez avrà già governato il Venezuela per 14 anni. Troppi, anche per un uomo della Provvidenza. Anzi: troppi soprattutto per un uomo della Provvidenza. Nel clima di “grande sfida patriottica” – o con me o con l’Impero – creato da Chávez e sostenuto da tutti gli apparati del potere pubblico, non sarà affatto facile. Ma sarebbe bello se domenica i venezuelani dicessero “no” alle piccole geometrie di questo “infallibile” Grande Geometra che, come un suo antecessore, ha sempre ragione. Bello soprattutto per chi ancora crede nel socialismo. Come direbbero a Genova: in termini di culto della personalità e di provvidenziali leader, qui, a sinistra, abbiamo già dato.

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