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La strage che uccise gli “anni ’60”

9 agosto 2009

 

Di Massimo Cavallini

 

“Helter Skelter” altro non è, per qualsivoglia dizionario della lingua inglese, che una torre d’acciaio circondata da uno scivolo, una di quelle vecchie attrazioni da Luna Park che, ormai pressoché scomparse, di norma servono solo a ravvivare la memoria di tempi più felici ed innocenti. E come tale – o come un’allegra metafora dell’amore – quel nome era stato, nel novembre del 1968, usato dai Beatles nel titolo e nel testo d’una loro canzone. “When I get to the bottom/ I go back to the top of the slide…Look out Helter Skelter/ She’s coming down very fast…Quando arrivo sul fondo/io torno in cima allo scivolo…Attento Helter Skelter/ Lei sta scendendo molto veloce…

Ma nella indimenticabile estate del 1969 – l’estate che ha chiuso “col botto” proprio quei “favolosi” anni ’60 di cui i Beatles furono uno dei simboli, o l’  “estate che ha cambiato il mondo” come, con giustificata enfasi, molti amano rievocarla in questo suo quarantesimo anniversario – Helter Skelter, divenne, in realtà, il titolo d’una storia di morte. Anzi,d’una storia di molte morti e d’un inizio. Chi morì, nella notte dell’8 agosto del 1969, tre settimane dopo che il primo uomo aveva camminato sulla luna ed una settimana prima che, a Woodstock, un milione di persone si riunissero per quei “tre giorni di pace, amore e musica” entrati nella leggenda – fu l’attrice Sharon Tate, massacrata, insieme ad altre cinque persone (sei se si calcola il bambino che Sharon si portava in grembo) nella sua villa di 10050 Cielo Drive, nel Benedict Canyon, area residenziale per superricchi all’ombra di Hollywood. Chi morì – la notte dopo, in un’analoga operazione di macelleria – furono i coniugi Leno e Rosemary LaBianca, proprietari d’un negozio di drogheria nell’area di Los Feliz. Tutti vittime – vittime casuali – delle apocalittiche visioni d’un guru di nome Charles Manson. E chi simbolicamente e politicamente morì, insieme a loro, fu, in quelle due notti di sangue, il movimento hippie. Quello stesso movimento hippie che, solo qualche giorno dopo – ma molto prima che la verità sulla duplice strage cominciasse ad emergere – nel fango e nell’allegria della campagna di Bethel avrebbe vissuto il suo apogeo di musica e di folla. O, almeno, questo è il modo in cui la storia viene il più delle volte narrata. Nell’estate del 1969, si racconta, il movimento hippie morì, sepolto sotto il peso dagli orrendi delitti consumati da Charles Manson e dalla  sua “famiglia”; o, se si preferisce, svanì nel nulla, derubato della propria innocenza (e della propria identità) dall’improvvisa visione del  lato più oscuro e tenebroso di sé stesso, dal repentino, inatteso emergere della sotterranea violenza che, come un fiume carsico, andava correndo nelle sue vene. E quel che nacque, quel che iniziò fu, allora, in questo contesto di morte, la “cultural war”, la guerra culturale tra due Americhe inconciliabili. O, come amano ancor oggi dire a destra (ricordate Sarah Palin?), tra l’America e l’anti-America.

Ma stanno davvero così le cose? Rispondere è difficile, perché difficile è capire, ancor oggi, non solo quando davvero il movimento hippie sia morto (se mai è davvero morto), ma anche se sia , come tale, davvero mai esistito. E che cosa, se è davvero esistito, sia mai davvero stato.  Di certo c’è comunque questo: che nessun  fatto di sangue ha mai assunto, nell’immaginario collettivo d’un  paese che ama mitizzare la propria storia criminale, una più alta valenza simbolica. E che quella valenza simbolica continua ancor oggi a riverberarsi, riproponendosi come testimonianza dei tragici effetti del “sesso, droga e rock n’ roll”. Questo fu quel che, nel pieno del processo a Charles Manson, sentenziò il presidente Richard Nixon (lo stesso che, in quello stesso, fatidico anno, avrebbe cominciato la guerra in Cambogia e cercato di coprire la strage di My Lay). E questo fu anche, in qualche misura, quel che implicitamente ammisero coloro i quali, dall’altro lato della barricata – o, se vogliamo, dal lato “hippie” della barricata – effettivamente considerarono (ed in parte ancora considerano) Manson come uno dei loro. O, quantomeno, come una innocente “vittima dell’establisment”.

Dunque, tornando, come si dice, a bomba: che c’entra, con tutto questo, la canzone Helter Skelter? Ed in che modo Charles Manson, l’uomo che aveva concepito e commissionato quegli orrendi omicidi, ha potuto (e può) essere considerato il prodotto d’un movimento che predicava “amore e pace”? Ancora una volta, la risposta non è facile. Perché molte sono le verità che si sovrappongono e, spesso, si contraddicono. Da un punto di vista sociologico-biografico, Manson appare soprattutto il prodotto delle istituzioni carcerarie degli Stati Uniti d’America, nelle quali, al momento del massacro del Benedict Canyon – quando, a 35 anni, la sua vita già si trovava nel dantesco “mezzo del cammin” – aveva trascorso ben più della metà della sua esistenza. Furti, piccoli imbrogli. Colpa, come si dice, di un’infanzia e di un’adolescenza difficili, marcati da una nascita fuori dal matrimonio e da un’endemica povertà. E tuttavia è un fatto che Charles Manson fu anche, a suo modo, un hippie. Lo fu da quando, nel quartiere di Height-Ashbury di San Francisco, sullo sfondo del “Love Festival del 1967” ed in quella fucina di ribellione che fu l’Università di Berkeley, cominciò a predicare “pace e amore” – una molto particolare versione di “pace e amore” – raccogliendo intorno a sé quella che chiamò “The Family”. Dettaglio di non secondaria importanza: Charles Manson non era né bello, né colto. Ma sebbene di  fisico minuto e quasi rachitico, e sebbene sapesse a malapena leggere e scrivere, esercitava su persone, anche di buona cultura – specie se di sesso femminile – uno strano, magnetico fascino. Mary Brunner, la prima donna ad entrare nella “Famiglia” – una famiglia nella quale, per volontà di Manson, il ruolo delle donne era, semplicemente, quello di “farsi scopare e di fare figli” – era un’avvenente 23enne, da poco laureatasi nell’Università di Madison, nel Wisconsin. E laureate – o, comunque,di “buona famiglia” – sarebbero in seguito state anche un buon numero delle sue schiave-seguaci. Molte delle quali diventate assassine.

È davvero una strana storia, quella di “Charlie” Manson. Strana, perché costantemente perduta tra una delirante, biblica visione del mondo ed una quotidiana, meschina ricerca del “successo”, inteso nella sua più mediocre ed “hollywoodiana” accezione. Charlie predicava, come vedremo, una molto particolare (ed assai imminente) versione dell’Apocalisse. Ma nel contempo cercava – con aggressiva insistenza – di pubblicare le musiche che componeva alla chitarra (uno strumento che aveva imparato a suonare in carcere) apparentemente con discreto talento (“Non è male – disse di lui Neil Young, dopo averne ascoltato qualche brano -. Peccato che il ragazzo sia completamente fuori controllo”). Una sua canzone – originalmente intitolata “Cease to Exist” – era brevemente entrata nel repertorio dei Beach Boys, grazie al fatto che uno dei membri del complesso, Dennis Wilson, aveva mostrato di apprezzare (al punto da ospitare per alcuni mesi nella sua villa l’intera “famiglia”) le due merci collaterali – donne e droga – che Manson era , oltre la musica, in grado di fornirgli con generosa abbondanza. Ed anche l’omicidio di Sharon Tate e dei suoi sfortunati ospiti fu, almeno in parte, il prodotto dei personali rancori del Manson “canzonettiere”. Sharon aveva avuto soltanto la sfortuna di affittare – dopo essersi sposata con il regista Roman Polanski – la casa che fu di Terry Melcher, produttore musicale e figlio di Doris Day, che aveva, in precedenza, commesso la grande colpa di rifiutare una canzone di Manson. “Andate in quella casa -ordinò “Charlie” ai suoi seguaci (tre donne ed un uomo) – ed uccidete tutti quelli che incontrate. Il tempo del Helter Skelter è arrivato”.

Che cos’era, per Charles Manson, l’Helter Skelter? Semplicemente (terribilmente e grottescamente) questo. Ossessionato dalla musica dei Beatles, Manson, aveva finito per leggere in molte delle loro canzoni – ed in particolare in quelle del “White Album”, pubblicato nel 1968 – un biblico, invasato messaggio sui destini del mondo. Helter Skelter – “She’s coming down very fast… – altro non era, per Manson, che l’annuncio d’una imminente e distruttiva guerra razziale tra neri e bianchi. I neri, frustrati da secoli di subordinazione, avrebbero alla fine prevalso. E per questo Manson – che s’identificava, oltre che con Gesù e con Satana, con il “quinto angelo” del Libro della Rivelazione dell’apostolo Giovanni – aveva riservato a sé stesso il compito di salvare la “Famiglia” nascondendola nell’abisso di cui, per l’appunto, il quinto angelo possedeva le chiavi. Un abisso, o meglio, una sorta di Eden sotterraneo, che – Manson ne era convinto – si trovava da qualche parte nella Death Valley, dove la “famiglia” aveva, tra scorpioni e serpenti a sonagli, stabilito la sua ultima sede. Charles Manson era intimamente convinto, anche, dell’inferiorità della razza negra, “capace solo di servire i bianchi”. Sicché, questo era il suo piano. Quando i neri, militarmente vittoriosi, si fossero resi conto di non poter governare la terra senza i bianchi che avevano sterminato, la “famiglia” sarebbe infine uscita dall’abisso ed avrebbe, come si dice, preso il comando. I negri, per loro natura propensi all’obbedienza, si sarebbero adattati. E Charlie Manson sarebbe, in questo modo, diventato “The King of the World”,  il re del mondo.

Helter Skelter – una frase che gli assassini avrebbero poi scritto sui muri (insieme all’insulto “pigs”, porci) con il sangue delle proprie vittime – era, per l’appunto, quell’apocalittica “guerra razziale”. E gli omicidi di Sharon Tate e degli altri altro non erano stati – come solo sul finire dell’anno gli investigatori avrebbero cominciato a comprendere – che un modo per accelerarne i tempi. O, per usare le parole, di Manson,un modo “to show the blackies the way”, per mostrare la via ai neri, incapaci di comprendere da soli il ruolo che la Provvidenza aveva loro riservato. Uccidere bianchi a casaccio per incolpare i neri.  Alimentare l’odio e la paura che dovevano rigenerare il mondo e consegnarlo nelle mani di Gesù-Satana e della sua bianchissima famiglia. Questo era l’amore e questa era la pace che Charles Manson predicava. Per lui non esistevano né il male né il bene. Né v’era, tra la vita e la morte, differenza alcuna, come avrebbe egli stesso più tardi ricordato, testimoniando, con esaltati accenti, al proprio processo: “Voi non mi capite e mi volete uccidere. Ma io sono già morto…”. Per lui quello che contava era, oltre la vita ed oltre la morte, sua o degli altri, soltanto il rapido avverarsi  dell’Helter Skelter, meglio se preceduto dal successo commerciale di qualcuna delle sue canzoni…

E proprio questa è ancor oggi, se vogliamo, la cosa più difficile da capire. Le idee razziste ed “anti-establishment” di Manson – anti-establishment nel più reazionario dei sensi possibili – hanno nel tempo trovato, com’è logico, alimento soprattutto nella destra estrema. Negli orrori dei suicidi collettivi del People’s Temple di Jonestown (1978, 900 morti) e di Waco (1993, 76 seguaci del “messia” David Koresh bruciati nel rogo che loro stessi avevano appiccato); o, ancora, nel massacro di Oklahoma City (1995, 168 persone uccise nell’attentato contro gli uffici federali del Murrah Building). Eppure, in quell’estate del ’69, fu la sinistra a pagare, con la morte – vera o presunta – del movimento hippie e, soprattutto con l’appannamento delle speranze che attorno a quella confusa ma vitale idea di “nuovo mondo” s’erano accese, il prezzo di quell’orrore. Fu la sinistra che, in quell’inizio della “cultural war”, o in quel primo scontro tra valori diversi ed inconciliabili, fu costretta a specchiarsi, spesso senza riuscire a riconoscere se stessa, nei massacri di Charles Manson. Nel marzo del 1971, Jerry Rubin, uno degli otto organizzatori delle proteste alla Convention Democratica di Chicago, nel 1968, non esitò a far visita a Manson in prigione considerandolo la vittima di un complotto ed un perseguitato simbolo di ribellione.

E proprio questo – per cialtroneria, pigrizia, stupidità, o per facile ricerca del sensazionalismo, Charles Manson è rimasto per qualcuno: un “uomo contro”, un venerabile e venerato emblema di sovversione. Come testimonia il fatto che, nel ’93, i “Guns n’ Roses  hanno pubblicato un album con sue canzoni, e che un altro divo del rock-macabro, Marilyn Manson, abbia, più tardi, addirittura assunto il suo nome. Come dire: “Charlie è vivo e lotta insieme a noi”. Ma per chi e per che cosa ha lottato e lotta Charles Manson? La risposta è questa volta facilissima, perché lo stesso Manson ha provveduto a stamparsela in fronte. Accadde durante il processo,quando il gran capo della “famiglia” decise di simboleggiare la sua estraneità al mondo – “I’m crossing myself out” – incidendosi col coltello (subito imitato dai suoi seguaci) una croce tra le due sopracciglia. Più tardi quella croce è diventata, con piccole correzioni, una svastica. Ed è in quel simbolo, che, oltre la persistente difficoltà di capire quel che forse è impossibile capire fino in fondo, ed oltre il dramma collettivo di quella torrida, indimenticabile estate del ’69, ancora si riflette, 40 anni dopo, come un’incancellabile cicatrice, la più intima verità di Charles Manson e dei suoi omicidi. Un pezzo di storia da non dimenticare.

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