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La linea del Piave di Hillary Clinton

Sconfitta per otto volte consecutive dopo il Super Tuesday, la ex grande favorita per la nomination democratica deve ora vincere in Texas e Ohio per fermare l’implacabile avanzata di Obama – Ce la farà? La storia ci dice che i Clinton danno il meglio di sé quando sono con le spalle al muro – Ma non sarà facile, perché c’è qualcosa , nel fenomeno Obama, che di fatto trascende le regole del gioco politico

 

13 febbraio 2008

 

di M.C.

Martedì notte, quando i risultati delle “primarie del Potomac” hanno cominciato a riempire gli schermi televisivi, Hillary Clinton si trovava molto lontana dalle sponde del fiume che bagna la capitale. Era a Houston, nel Texas,immersa in un classico “bagno di folla” nel AstroDome, intenta ad organizzare le truppe lungo quella che è ormai diventata – volendo usare una metafora tutta italiana – la sua linea del Piave. O meglio: il principale avamposto della sua linea del Piave, l’ultima spiaggia, l’ultima speranza di bloccare l’onda avanzante d’un esercito nemico che, nelle ultime ore, è sembrato rompere tutti gli argini. I “number crunchers” – gli esperti in aritmetica elettorale – non sembrano avere dubbi. Hillary ha, a questo punto, un vitale bisogno (data per scontata una nuova duplice sconfitta, il prossimo mercoledì, in Wisconsin e nelle Hawaii) di vincere almeno in uno dei grandi stati (Ohio e, soprattutto, Texas) il cui voto è programmato per il prossimo 4 marzo. E ciò per poter poi sperare d’arrivare al voto della Pennsylvania, il 22 di aprile, con qualche chance d’avviare una vittoriosa controffensiva.

Cos’è accaduto? E, soprattutto, che cosa accadrà di qui al 4 di marzo? Gli stessi “number crunchers” vanno con forza sottolineando – in qualche modo sminuendo se stessi e la propria professione – l’assoluta inutilità d’ogni semplice calcolo aritmetico. Poiché, è indiscutibilmente vero: se è ai freddi numeri che si guarda, la partita tra Barak Obama e Hillary Clinton a tutti gli effetti resta, dopo le “Potomac primaries”, quello che era prima. Ovvero: un virtuale pareggio. Con l’unica differenza che è ora Obama ad avere, nei confronti di Hillary, un leggerissimo margine di vantaggio (25 delegati, un’inezia). E con, per contro, un’ormai inamovibile costante: quella che ci dice come praticamente impossibile sia, per entrambi i contendenti, raggiungere (o anche solo avvicinarsi) ai 2.025 delegati necessari per giungere vincitori alla Convenzione di Denver. Ciò che ha trasformato in una potenziale Caporetto la lunga serie di sconfitte (otto) vissute da Hillary Clinton in queste due ultime settimane è, in realtà, qualcosa di molto più complesso, aleatorio eppure assai concreto, che non può essere in alcun modo spiegato in termini di addizioni o sottrazioni di delegati. E, in qualche misura, neppure in termini politici, se per “politica” s’intendono le regole con le quali s’è fin qui giocata ed interpretata la partita.

Una settimana fa, nel corso d’un incontro con gli studenti di Scienze Politiche dell’Università della Virginia, così Hillary Clinton aveva spiegato le ragioni per le quali, nonostante le sconfitte subite in molti Stati durante il Super Tuesday (e dopo il Super Tuesday), continua a considerare se stessa la grande favorita nella corsa alla nomination. Prima ragione: a lei, pur battuta nella maggioranza delle primarie, sono andati (e, spesso con molto significative maggioranze) gli “Stati che contano”. Vale a dire: “New York, New Jersey, Florida, Michigan, California e Arizona”. Seconda ragione: la “demografia elettorale” parla a suo favore. Perché Obama – aveva sottolineato Hillary – ha in realtà vinto prevalentemente laddove s’è votato con il sistema dei “caucus” – ovvero, laddove sono gli attivisti e le nuove truppe giovanili mobilitate dalla “obamamania” a prevalere in incontri diretti -; oppure laddove molto forte è l’influenza del voto nero; o, per contro, quello dei democratici (chiamiamoli così) “borghesi” (i bianchi con un titolo universitario ed un reddito superiori ai 100mila dollari annuali, in forte maggioranza “obamiani”). Ma laddove i voti si sono misurati (si misurano e si misureranno) in termini di “coalizione vincente” (e vincente, soprattutto, in vista della finale battaglia per la Casa Bianca) , è a lei, a Hillary Rodham Clinton, che sono sempre andati la palma della vittoria e, inevitabilmente, il titolo di frontrunner. Perché è lei che vanno i voti di quello che, con un altro forzatissimo italianismo, possiamo definire lo “zoccolo duro” del partito: gli “union votes”, i voti dei operai (blue collars) sindacalizzati e quelli dei ceti medi a basso reddito, quello delle donne e quello della minoranza latina.

Questo ha detto Hillary. E questo è ciò che, al di là dell’aritmetica, le primarie del Potomac hanno impietosamente rivelato: la rottura di tutti questi argini, la frantumazione del fronte o, fuor di metafora, della “coalizione vincente” di cui Hillary si sentiva titolare. In Virginia, in Maryland e nel District of Columbia, Barak Obama non solo ha vinto, ma ha conquistato significative maggioranze tra i “blue collars”, tra i bianchi poveri, tra i “latinos” e, persino, tra le donne. Ed è lui, ora, e non Hillary, a dominare lo “spettro sociale” considerato indispensabile per vincere la corsa verso la bianca magione di 600 Pennsylvania Avenue. Il che significa che proprio verso di lui, a questo punto, potrebbero spostarsi in massa i voti dei supedelegati (circa 800) ai quali certamente toccherà decidere le sorti della nomination.

Tutto finito? No, ammoniscono i politologi. Perché Hillary, o meglio i Clinton sono combattenti che proprio quando si trovano con le spalle al muro riescono a dare il meglio di sé. E perché a loro vantaggio ancora gioca un fattore: la cosiddetta “sindrome del frontrunner”. O, per meglio dire, la stessa malattia che colpì Barak Obama a gennaio, allorché – vincitore in Iowa e grande favorito in New Hampshire – cadde vittima dei dubbi dell’elettorato (lo stesso elettorato che era sembrato ammaliato dal suo carisma)di fronte alla concreta prospettiva d’una sua rapida nomination (per i più deboli di memoria: nel New Hampshire vinse infine di stretta misura Hillary, nonostante sondaggi che davano Obama trionfatore).

Di qui al 4 di marzo, si può giurarlo, Hillary non mancherà di ricordare ogni giorno, agli elettori del Texas e dell’Ohio, i pericoli connessi all’inseguimento d’un miraggio. O, più in concreto, all’ascesa di una candidatura riempita soltanto – a fronte della sua provata esperienza e della misurabile solidità delle sue proposte – dalla malia d’una suggestione. Stile contro sostanza, carisma contro concretezza. E nessuno può escludere che non riesca a convincere gli elettori, regalando a se stessa ed all’America l’epopea di un’altra, storica rimonta clintoniana. La “linea del Piave”, insomma, potrebbe tenere. E, tenendo, potrebbe essere la premessa d’una vittoria finale. Ma resterebbero, in ogni caso, le straordinarie, affascinanti ragioni della sfida di Obama.

Ieri, il Wall Street Journal – implacabile e livido nemico dei Clinton fin dal 1992 – ha con sadico piacere (ma con indubbia efficacia) sottolineato una grande verità. Quello che deve “far impazzire Hillary”, ha scritto il quotidiano, è il fatto che il messaggio di Obama, in direzione di “una politica post-partitica e post-razziale, carica d’ottimismo e di speranza”, non ha tanto “sconfitto la sua (di Hillary n.d.r.) campagna, quanto l’ha trascesa”. Ovvero: s’è mossa in un territorio che, in qualche modo, le è precluso, in una dimensione che le è estranea e dove si parla una lingua che non può comprendere: quella d’un futuro che è tale proprio perché è vago, ammaliante, alimentato da una speranza che è tutta da definire, a fronte di promesse tutte rivolte al passato. Perché, scrive ancora il Wall Street Journal, il “futuro proposto da Hillary” non è, in buona sostanza, che un semplice ritorno alla “pace e prosperità degli anni ‘90”. Anche questi , a loro modo, un miraggio. Solo che per inseguirlo, bisogna camminare all’indietro…

Presto – al massimo dopo il voto della Pennsylvania, o alla “stagion dei fiori” come canta la Mimí de la Boheme – sapremo com’è andata a finire. Ma di certo c’è, fin d’ora, il fatto che la “rivoluzione di Obama” – -o, se si preferisce, la sua proposta, vaga ed ammaliante, contraddittoria e, proprio questo, carica del fascino d’una grande promessa di riconciliazione nazionale in direzione del cambiamento – ha toccato corde profonde in quest’America (e non solo nell’America democratica) marcata dagli otto catastrofici anni dell’Amministrazione Bush. Ed ha rivelato una volontà di trasformazione radicale, una vitalità nascosta ed esplosiva.

Che cosa davvero sia la “speranza” propugnata da Obama non è facile dire. Ma nessuno può dubitare che sia ormai, prepotentemente, all’ordine del giorno. Finisca come finisca, l’America sta vivendo una delle più interessanti ed imprevedibili stagioni politico-elettorali della sua storia.

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