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Thursday, March 28, 2024
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Impeached! Negli USA è democrazia vs trumpismo

Donald J. Trump è da ieri – giorno in cui andava celebrando il suo millesessanticinquesimo giorno alla Casa Bianca – il terzo presidente degli Stati Uniti d’America ad esser colpito da impeachment. O, come vuole una frase fatta, a subire “l’onta” dell’impeachment. Cento cinquantun anni fa era toccata, quest’onta, ad Andrew Johnson. Ed appena 21 anni fa – in quella che ancora è cronaca molto più che Storia – era stato William Jefferson Clinton ad attraversare, nel pieno del suo secondo mandato, queste forche caudine. Il primo era stato accusato, in un paese impegnato a lenire le ferite della Guerra di Secessione ed al culmine del periodo storico che va sotto il nome di “recostruction” – d’aver violato una legge allora in vigore, il Tenure of Office Act, licenziando il suo Segretario alla Guerra, Edwin Stanton. Il secondo era invece finito sotto accusa – al termine d’una pluriennale “caccia all’uomo”, cominciata nel 1993 con un’inchiesta su una presunta speculazione edilizia negli Ozarks dell’Arkansas, Stato di cui Clinton era stato a lungo governatore – per aver mentito in merito ad una sua relazione amorosa con Monica Lewinsky, una stagista della Casa Bianca. Entrambi, Johnson e Clinton, erano stati poi assolti dal Senato, dove – allora come oggi – era necessaria una maggioranza dei due terzi per sancire la rimozione del presidente. E pressoché certo è che proprio così, con una piena assoluzione, finirà (se e quando finirà) anche l’impeachment di Donald J. Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America.

Il repubblicano del Kentucky Mitch McConnell, attuale presidente del Senato (ovvero della corte del prossimo processo di impeachment) è stato infatti chiarissimo. La messa sotto accusa del presidente – ha dichiarato immediatamente dopo il voto della House of Representatives – è il prodotto della “più frettolosa, superficiale ed ingiusta (the most rushed, least thorough and unfair)” delle inchieste”. Ragion per la quale Donald J.Trump non può che essere assolto. Ed è proprio in questa direzione, quella d’una rapida assoluzione, che – come McConnell aveva annunciato ancor prima che la House of Representatives concludesse i suoi lavori – egli al più presto intende “coordinare la propria azione con la Casa Bianca”.

Splendido. Provate a questo punto ad immaginare un giudice che – in qualunque latitudine del pianeta Terra, foss’anche in uno dei suoi più remoti, disgraziati, senza legge e malgovernati anfratti – annunciasse di star coordinando con l’imputato, già preventivamente non solo assolto ma dichiarato martire, i tempi ed i modi del prossimo processo. Ed avrete, grazie a questo sforzo di fantasia, un’idea di che cosa davvero stia accadendo in quello che, del pianeta Terra, è da tempo considerato il paese più ricco e poderoso, nonché in quella che ama considerare se stessa come la più antica e solida delle democrazie. O meglio: avrete, in virtù di tanto paragone, un’idea di dove davvero stia l’onta di questa storia. Il processo di impeachment in corso non è tanto, come molti scrivono, una “indelebile macchia” per la presidenza di Donald Trump – personaggio “non sporcabile”, essendo lui stesso, per quello che dice, per quello che fa e per quello che sempre è stato, una sorta di macchia ambulante – quanto una prova della crisi profonda e per molti aspetti caricaturale (profonda proprio perché caricaturale) in cui versa l’intero sistema democratico americano.

Partiamo, per meglio comprendere il fenomeno, da quelle sempre meno apprezzate entità che un tempo si chiamavano “fatti”. Donald Trump è praticamente, in questa storia dell’impeachment, un reo confesso. Il principale capo d’accusa contro lui è infatti proprio la trascrizione – una libera e presumibilmente alquanto “limata” riproduzione d’una chiamata telefonica la cui registrazione resta rigorosamente segreta – del colloquio da lui intrattenuto, lo scorso 25 di luglio, con il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Trascrizione dalla quale inequivocabilmente risulta come Trump, confermando la denuncia d’un anonimo “whistleblower” dalla quale l’intera inchiesta era partita, abbia davvero chiesto alla sua controparte – in quella che con tipica sfacciataggine definisce una telefonata “perfetta” – di aiutarlo a diffamare Joe Biden, suo molto probabile rivale democratico nelle ormai prossime presidenziali del 2020. “I would like you to do us a favor, though…”, vorrei però che ci facesse un favore. Questa è la frase incriminata, quella che, con ogni probabilità, più nitidamente resterà nella storia di questo terzo impeachment presidenziale.

Il favore, anzi, i favori reclamati dal presidente Usa erano, in effetti, due. Il primo: l’apertura, o meglio, l’annuncio dell’apertura di un’indagine su Burisma, un’impresa energetica ucraina nel cui consiglio d’amministrazione lavorava Hunter Biden, uno dei figli di Joe. Il secondo: l’apertura, o meglio, ancora una volta, l’annuncio dell’apertura di un’altra inchiesta giudiziaria sul presunto (tanto “presunto” da esser stato, da tempo, provato completamente falso) ruolo che hackers ucraini avrebbero avuto nella vicenda della violazione dei server del Partito Democratico durante le presidenziali del 2016.

E quali erano le contropartite – o il “quid pro quo”, come vuole una espressione latina diventata, a ridosso dell’impeachment, straordinariamente popolare negli Usa – di questi due “favori”? La logica inequivocabilmente suggerita dalle circostanze del colloquio e tutte le testimonianze ottenute dal Congresso – ottenute, va subito aggiunto, grazie a diplomatici e funzionari che hanno sfidato il drastico divieto di collaborazione della Casa Bianca – lasciano pochi dubbi in proposito. Le contropartite erano, a loro volta, due. Lo sblocco degli aiuti militari stanziati dal Congresso – aiuti inopinatamente “sospesi” da Trump giorni prima – e la concessione al presidente ucraino, disperatamente bisognoso di mostrare all’invasore russo prove dell’appoggio degli Usa, d’una visita ufficiale a Washington.

Si badi bene: dalla lettura della trascrizione consegnata al Congresso – che, vale la pena ripeterlo, non è che la versione presidenziale d’una conversazione la cui registrazione resta “top-secret” – non risulta in alcun modo che, come Trump sostiene, la sospensione degli aiuti fosse, più in generale, legata alla lotta alla corruzione (un endemico problema del governo ucraino). E neppure risulta che Trump volesse l’apertura d’una vera indagine sulle presunte malefatte dei due Biden, o, ancor meno, sulla molto fantasiosa (e da tempo totalmente smontata) ipotesi d’un intervento ucraino (e non russo) nelle elezioni Usa del 2016. Fosse stato questo – una vera inchiesta – il suo obiettivo, Trump avrebbe potuto in tutta tranquillità raggiungerlo affidando le indagini, non a un presidente straniero, ma alle agenzie investigative Usa sotto il suo diretto controllo. Trump ben sapeva, tuttavia – e lo sapeva proprio perché queste agenzie già lo avevano informato – che, così facendo, si sarebbe in realtà infilato di due vicoli ciechi.

Per quanto assolutamente riprovevole fosse il fatto che Hunter Biden stesse lavorando – lautamente pagato e con l’unica qualificazione d’esser figlio di suo padre – per un’impresa ucraina notoriamente parte del sistema di corruzione di cui sopra, nulla fin qui emerso indica che Joe Biden abbia, nelle sue vesti di responsabile della politica ucraina dell’Amministrazione Obama, fatto qualsivoglia favore a Burisma. Sicuramente falsa, anzi, è la versione – instancabilmente ripetuta da Trump e dai trumpiani – secondo la quale Biden avrebbe a suo tempo imposto al governo ucraino il licenziamento del Procuratore Generale Viktor Shokin, solo perché quest’ultimo aveva aperto un’inchiesta su Burisma. Vero è, caso mai, il contrario. Il licenziamento di Shokin, considerato uno degli epicentri della corruzione ucraina, era da tempo un obiettivo politico, non di Biden, ma del governo Usa, dell’Unione Europea, del Fmi e tutte le agenzie internazionali che avevano relazioni con l’Ucraina. E dagli atti giusto questo risulta: che un’inchiesta giudiziaria su Burisma, aperta due anni fa, era stata proprio da Shokin – come del resto tutte le inchieste di corruzione a lui affidate – regolarmente insabbiata.

No, ciò che, con tipica meschinità, Trump davvero voleva da Zelensky era, non la verità su Burisma, ma l’esatto contrario. Non un’inchiesta, ma, per l’appunto, la “notizia” dell’apertura di un’inchiesta, una voce, un input, qualcosa che, in vista delle prossime presidenziali, lo aiutasse ad alimentare quello che – per dirla con il don Basilio del rossiniano Barbiere di Siviglia – è il “venticello” della calunnia. E per ottenere questa “auretta assai gentile”, da far puntualmente esplodere come “un rombo di cannone” in vista delle prossime presidenziali, aveva senza ritegno usato, in termini chiaramente estorsivi, il peso della sua carica e danaro pubblico stanziato per quella che, a torto o a ragione, era (ed è) ritenuta una causa legata alla sicurezza nazionale.

Riassumendo: lungi dal combattere la sistemica corruzione ucraina, Trump ha, al contrario, esportato in Ucraina, imponendola con un ricatto, la sua propria corruzione. E lo ha fatto da par suo, preventivamente sgombrando il terreno dalla scomoda presenza di funzionari onesti – vedi il vergognoso caso del licenziamento dell’ambasciatore Marie Yovanovitch, davvero impegnata nella lotta anti-corruzione – sguinzagliando con pieni poteri, alla ricerca di pattume, il suo “avvocato personale”, Rudy Giuliani. Tutta da leggere, nella trascrizione della telefonata “perfetta” con Zelenky, la parte nella quale Trump invita il presidente ucraino a prender contatto, per discutere i dettagli del “favore” che gli era stato richiesto, proprio con l’ineffabile ex sindaco di New York…Per dirla con il prof. Noha Feldman, uno degli esperti di diritto costituzionale che hanno testimoniato davanti alla House of Representatives:  se tutto questo non è classificabile come “impeachable crime” (crimine degno di impeachment), nulla può esserlo…

E proprio qui comincia la storia che davvero conta. Perché per il Partito Repubblicano – tutto il partito repubblicano – quello che Trump ha fatto (e che continua a fare come i persistenti viaggi di Rudy Giuliani in Ucraina testimoniano) non solo non è impeachable, ma non è in assoluto. Nulla è accaduto. Nulla se non un tentativo incostituzionale e “golpista” d’annullare il risultato delle elezioni presidenziali di tre anni fa. Nelle ore che hanno preceduto il voto sull’impeachment, Donald Trump ha inviato a Nancy Pelosi, speaker della House of Representives, una lettera di sei pagine che, in altri tempi, avrebbe da sola giustificato, per i suoi toni e contenuti deliranti, un’urgente richiesta di rimozione dall’incarico. L’unico “abuso di potere” che si è consumato – sostiene Trump in un incongruente susseguirsi di insulti, menzogne ed infantili lamentazioni sulla cattiveria dei suoi nemici – è quello che i vendicativi congressisti democratici stanno praticando contro lui. “Più diritti processuali sono stati concessi – ha scritto Trump in uno dei passaggi più involontariamente e tragicamente comici della sua lettera – alle persone condannate (venti “streghe” tutte finite impiccate n.d.r.) nel processo di Salem”.

E questo – questa tragica e spesso comica litania – è anche, sostanzialmente, quello che, con poche ed insignificanti varianti, sono andati ripetendo i deputati repubblicani nel corso del dibattito sull’impeachment, ovviamente conclusosi con un voto quasi perfettamente in bianco e nero. Ovvero: con i repubblicani tutti per il no ed i democratici tutti per il sì. Nessun serio tentativo di discutere, fatti a alla mano, le colpe imputate al presidente. Solo un lungo, nevrotico piagnisteo sulla “ingiustizia” del processo – non è mancato, in questi panorami, chi ha paragonato Trump a Gesù Cristo, mettendo a confronto, in termini ovviamente negativi per i secondi, il comportamento di Pilato con quello dei democratici – e sulla “assoluta” assenza di prove. Il tutto, naturalmente, senza menzionare il fatto che lo stesso Trump si è rifiutato di mettere a disposizione del Congresso documenti e testimonianze che, fosse vero quel che va sostenendo, avrebbero dovuto provare, non solo la sua innocenza, ma la sua indiscutibile purezza d’animo.

Qualcuno, tra i repubblicani, ha – accanto a quanto sopra descritto – sostenuto anche un’altra (e non meno ridicola) linea di difesa: quella del “non luogo a procedere”, per la mancata consumazione del reato. Dopotutto, ha sostenuto ben più d’uno di loro, gli aiuti militari “sospesi” sono stati poi regolarmente erogati all’Ucraina senza che vi fosse alcuno degli “annunci” previsti nel presunto “quid pro quo”. Vero. Così com’è vero è che questo “sblocco” si è verificato dopo che la denuncia del whistleblower era divenuta pubblica. Vale a dire: dopo che il colpevole era stato colto con le mani nel sacco. Seguendo questa logica anche il rapinatore che, incalzato dalla polizia, fugge dalla banca rinunciando al bottino, dovrebbe esser considerato “non processabile”.

Quella di Trump e dei repubblicani è stata, nella sostanza, non una difesa, ma un chiassoso contrattacco basato su un vero e proprio cover-up, marcato dall’isterica denuncia di profondi ed oscuri complotti (profondi quanto il famoso “deep state” di cui da sempre vanno dissertando i trumpisti e tanto oscuri che impossibile è vederli), dal rifiuto di considerare le prove che esistono (comprese quelle contenute nella inconsapevole confessione del presidente) e dalla denuncia delle prove che in effetti non esistono (o meglio, che non sono visibili), ma solo perché sono state occultate proprio da coloro che, gridando al martirio ed al golpe, ne vanno ora denunciando l’assenza.

E proprio questo è – tornando a bomba – quello che Mitch McConnell, va ora preparando nel Senato. Non il processo che la Costituzione prevede – un processo teso alla ricerca della verità, attraverso l’esame di tutte le prove, di tutti i documenti e di tutte le testimonianze che la verità necessita per essere rivelata – ma una semplice replica del cover-up presidenziale. Chiamare a testimoniare l’avvocato tuttofare Rudy Giuliani? Scordatevelo. Ascoltare l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton, il segretario di Stato Mike Pompeo, il vicepresidente Mike Pence, il chief of staff Mick Mulvaney e tutte le altre persone che, in quanto complici, hanno una diretta conoscenza dei peccati presidenziali? No way. Chiedere la consegna della registrazione completa del colloquio telefonico tra Trump e Zelensky? Non se ne parla neanche. Il problema è, per McConnell, soltanto quello di sancire, senza tante complicazioni, l’innocenza del presidente. E di farlo il più rapidamente possibile, in termini che vanno con lui preventivamente concordati.

Nel breve discorso con il quale ha aperto il dibattito che ha preceduto l’impeachment di Donald Trump, Nancy Pelosi – fino a poco tempo fa fierissima nemica d’ogni impeachment che non avesse una robusta base “bipartisan” ed un minimo di chance di concludersi con la condanna del reo – è stata molto chiara. Donald Trump non ha, con i suoi comportamenti, lasciato alla maggioranza democratica della Camera dei Rappresentati, alcuna scelta. Perché mettere il presidente sotto accusa è ormai diventato, al di là d’ogni calcolo politico o elettoralistico, un “dovere costituzionale”. Ed è certo vero che, come pressoché tutti gli osservatori vanno sottolineando, questo “dovere costituzionale” si va inevitabilmente dipanando, di fronte ad una opinione pubblica a sua volta spaccata in due, in uno scenario costituzionalmente devastato da una contrapposizione di forze – i democratici da un lato, i repubblicani dall’altro – che segnala lo svanire di quei “valori condivisi” che di ogni democrazia (e particolarmente d’una democrazia storicamente fondata sul bipolarismo, come quella americana) sono l’indispensabile base.

L’impeachment di Donald Trump – immancabilmente destinato a concludersi con la più vergognosa e prefabbricata delle assoluzioni – è la prova della scomparsa di questo, chiamiamolo così, spazio comune. Non tanto per l’esasperarsi della faziosità partitica (o di quella che va sotto il nome di “tribalizzazione della politica”), quanto per il fatto che il più essenziale di quei “valori condivisi”, la stessa democrazia, ha di fatto cessato d’esser parte del bagaglio ideologico-culturale di quello che (sempre più flebilmente, per la verità) continua a chiamare se stesso “il partito di Abraham Lincoln”. Il partito repubblicano è ormai diventato – come ha non molto tempo fa scritto George Will, uno storico columnist di inattaccabile fede conservatrice – non solo il “partito di Trump”, ma il partito del “culto di Trump”. Ovvero: del culto d’un personaggio in altri tempi definito come “un razzista xenofobo” ed un “fanatico religioso”. Nonché come “un buffone”, come “un pazzo”, e come “la patetica imitazione “d’un “tin-pot dictator”, un dittatorello da repubblica delle banane, “totalmente inadeguato come candidato alla presidenza”.

A chi appartengono questi non precisamente lusinghieri giudizi? A Lindsey Graham, uno dei senatori repubblicani che, folgorato lungo la via di Damasco dopo il trionfo di Trump nelle primarie del 2016, è oggi forse il più ossequioso dei trumpisti. E che, in quanto tale, s’appresta ora ad assolvere e benedire, lungo le ferree linee marcate da Mitch McConnell, il presidente tanto malvagiamente colpito da una caccia alle streghe molto più ingiusta e crudele di quella consumatasi a Salem sul finire del diciassettesimo secolo. L’impeachment di Donald Trump non è in ultima analisi che questo: il punto di arrivo e, al tempo stesso, il punto di partenza d’una crisi della democrazia americana. Una crisi che viene da lontano e che molto lontano minaccia d’andare. Una crisi della quale il “dittatorello da repubblica delle banane” Donald Trump, oggi divenuto oggetto di culto, non è, a conti fatti, che il sintomo più visibile.

Il prossimo novembre la parola torna agli elettori. E, per molti motivi, nient’affatto scontato è che il malato riesca, nelle urne, a ritrovare se stesso.

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