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Il prigioniero

Sei domande per definire il senso del messaggio finale di John McCain – Dalla prigione di Hanoi (dove subì torture che oggi Bush chiamerebbe “tecniche di interrogatorio rafforzate”) a quella della Convention di St. Paul, dove il candidato repubblicano si è consegnato nella mani dell’ala dura del partito…

 

13 agosto 2008

 

di M.C.

 

Domanda numero uno: quante volte, nel corso del suo intervento conclusivo, John McCain ha parlato dei suoi anni di prigionia ad Hanoi? Risposta: 43 volte, più o meno equanimemente divise tra l’ouverture, destinata a marcare i tempi dell’intero concerto, ed il suo “gran finale”, chiamato a fissare nella mente degli ascoltatori il senso ultimo del “messaggio”.

Domanda numero due: quali memorabili momenti ha vissuto il discorso tra queste sue due punte estreme (ovvero: tra Hanoi e Hanoi)? Risposta: nessuno. John McCain ha riempito gli spazi vuoti tra il ricordo della sua eroica prigionia ed il ricordo della sua eroica prigionia con il nulla di qualche slogan di banalissima vergatura reaganiana – “il mio avversario vuole aumentare le vostre tasse, io voglio diminuirle…” – e con una molto generica riproposizione d’un mito riferito a se stesso: quella del suo essere un “maverick”, uno spirito indipendente, un uomo politico capace di muoversi fuori dal gregge e di promuovere, fuori dalle regole della convenienza politica, soluzioni che vanno oltre la logica dei partiti. O meglio: soluzioni che – rievocando lo slogan base della Convention – mettono “country first”, la Patria al primo posto.

Domanda numero tre: perché la riproposizione di questo mito è stata “generica”? Risposta: per una ragione semplicissima. Quasi tutte le non poche prove di “indipendenza” offerte da McCain nel corso dei suoi 24 anni trascorsi a Capitol Hill (niente male per uno che promette di “cambiare Washington”) corrispondono ad altrettanti – e spesso umilianti – cambi di casacca operati da lui nel corso della lunga stagione delle primarie repubblicane, allorquando, alla ricerca della nomination, ha senza riserve cercato di compiacere lo “zoccolo duro” del partito. Qualche esempio. McCain aveva a suo tempo condannato, distinguendosi dalla linea del suo partito, i più fanatici esponenti del fondamentalismo cristiano, definendoli “agenti d’intolleranza”. E da quegli stessi “agenti d’intolleranza ‘ s’era poi ripetutamente recato in pellegrinaggio, prima e durante la sua corsa per la candidatura repubblicana, invocando il loro appoggio. McCain aveva, nel 2005, molto attivamente contribuito all’elaborazione “bipartisan” d’una legge complessiva sull’immigrazione. E nel corso delle primarie l’ha poi ripetutamente rinnegata, in pubbliche cerimonie di pentimento, piegandosi di fronte alle più xenofobiche derive dei repubblicani “di frontiera”. E l’elenco potrebbe continuare a lungo…Per dirla con E.J. Dionne in questo articolo pubblicato dal Washinton Post: “McCain non è riuscito a cambiare il partito repubblicano, così ha scelto di cambiare se stesso…”. Ed è proprio nelle vesti del se stesso cambiato che, oggi , reclama la presidenza degli Stati Uniti d’America. Giovedì notte, nel celebrare il coraggio del John McCain “maverick”, il John McCain candidato alla presidenza stava, in effetti, celebrando un morto.

Domanda numero quattro: quante volte, nel corso dell’intera Convenzione, è stato ricordato l’eroico passato di John McCain? Tante che nessuno le ha potute calcolare con esattezza. Ma certo è che non vi è stato intervento, per quanto marginale, che, in dettaglio o di sfuggita, abbia evitato questa sorta di obbligo protocollare. Il tutto con l’inevitabile risultato di banalizzare il personale eroismo del candidato, riducendolo ad una sorta di cantilenante e, alla lunga, noiosissima litania. Noiosissima e persino, paradossalmente, in aperta contraddizione con le ragioni che hanno spinto gli organizzatori a trasformare quella storia in un ossessivo ritornello. Il tema del congresso era: mettere la patria al primo posto. E lo stesso McCain ha più volte ricordato come, votare per lui, significhi votare per qualcuno che si batte per qualcosa “più grande di ogni individuo”. Ma alla fine quel qualcuno ha finito per parlare, con narcisistica petulanza, soprattutto di se stesso.

Domanda numero cinque: qual è stato lo scopo ultimo di questo ossessivo riproporre la storia del McCain prigioniero? Gli scopi sono stati due e, entrambi, piuttosto evidenti. Il primo era quello di trasmettere agli elettori l’idea che, in questa corsa presidenziale, il “carattere” del candidato conta più dei contenuti delle proposte. Da un lato un uomo che, per “mettere la Patria al primo posto” ha affrontato senza piegarsi le torture dei comunisti vietnamiti. Dall’altro un giovincello eloquente, ma vacuo, una sorta di celebrità hollywoodiana senza sostanza e senza passato.

Il secondo scopo è quello di nascondere il fatto che il prigioniero eroico dell’Hanoi Hilton è ancor oggi – e molto meno eroicamente – un prigioniero: questa volta dell’ala dura del suo stesso partito, alla quale ha offerto, come in una sorta di sacrificio propiziatorio, la nomina a vicepresidente di Sarah Palin. Ed alla quale già aveva negli ultimi anni regalato, come un bottino di guerra, la sua piuttosto logora immagine di “maverick”. Forte di questa vecchia immagine e della più fresca (ma non per questo più autentica) figura di “outsider” rappresentata dalla giovane e pimpante (oltre che ultraconservatrice) governatrice dell’Alaska (il cui “elettrizzante” intervento di mercoledì sera ha, di fatto, non poco oscurato il suo) McCain presenta se stesso come l’’uomo capace di portare un autentico cambiamento a Washington.

Domanda numero sei: quale cambiamento? Quello, ovviamente, destinato a “mettere la patria al primo posto”. Per chiudere il cerchio di questa tautologica proposta politica – mettere la Patria al primo posto mettendo la patria al primo posto – McCain dipinge una Washington afflitta dall’egoismo di politicanti identificati come una poderosa élite “liberal”. Una Washington che non esiste contrapposta a quella reale afflitta dagli otto, catastrofici anni della presidenza Bush e da un Congresso che, dal 1994 al 2006, è stato costantemente in mani repubblicane. Per nascondere questa ovvia verità, il Partito Repubblicano, organizzatore della Convention di St.Paul, ha dovuto far sparire Bush (grazie alla concomitanza con l’uragano Gustav relegato ad un breve ed insignificante intervento via satellite) e in, buona misura, anche se stesso dal Xel Energy Center…

In conclusione: nella Convention di Sta. Paul, McCain ha esaltato fino alla noia la sua prigionia ad Hanoi – dove subì torture che oggi, seguendo gli standard dell’America di Bush, si dovrebbero definire “enhanced interrogation techniques”, tecniche d’interrogatorio rafforzate – per nascondere il suo attuale stato di cattività. Prigioniero era allora e prigioniero è oggi. Quello che ha perso per strada – se mai c’è stato – è l’eroismo.

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