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Il lungo addio di Hillary Clinton

Quando ormai non mancano che cinque primarie alla fine della corsa, Hillary non ha più alcuna possibilità di battere Obama in numero di delegati – E non le resta che giocare la carta (truccata?) della “eleggibilità”

 

25 maggio 2008

di Massimo Cavallini

 

La corsa è finita. La corsa continua. Martedì notte. Prima ancora che i risultati dell’Oregon cominciassero ad essere contati – e quando il sole già era passabilmente alto sugli orizzonti della vecchia Europa – Barak Obama ha affidato non alle parole, ma ai simboli, il suo discorso della vittoria. O meglio: il discorso della sua ancora indichiarabile, ma ormai inevitabile vittoria. E, mentre dal Kentucky giungevano le cifre del più eclatante e più inutile dei trionfi di Hillary (65 a 30) – nonché l’eco del disperato ottimismo con cui la sua rivale annunciava il proseguo della sfida – lui s’apprestava a salire sul palco molto lontano dal teatro della battaglia. Era nell’Iowa, a De Moines. Ovvero: là dove la sua corsa era cominciata, cinque mesi or sono, in un gelido giorno di gennaio.

Quando venimmo qui per la prima volta – ha detto in sostanza Obama – tutti gli osservatori affermarono, all’unisono, che mai e poi mai saremmo giunti al traguardo. Ed ora eccoci qui, non ancora oltre quella linea fatale, ma ormai in grado di vederla, quasi di toccarla. Insomma: la corsa per la nomination democratica continua. E continuerà fino a quando non ci sarà, ufficialmente, un (o una) “nominee”. Ma quella corsa – ha, con molto tatto lasciato intendere l’oratore – già vanta, a tutti gli effetti, un vincitore. Il senatore dell’Illinois aveva di fronte a sé, all’ombra neoclassica del Campidoglio di De Moines, una folla osannante – una delle molte folle osannanti che l’hanno accompagnato nell’interminabile viaggio di queste storiche primarie – ormai indifferente tanto alle notizie che ancora giungevano dal Kentucky (dove Obama aveva ampiamente perso), quanto a quelle che stavano per arrivare dall’Oregon (dove Obama avrebbe ampiamente vinto). Ma soprattutto, vantava, a suo sostegno, un’indiscutibile logica matematica. Con le primarie del Kentucky, da lui catastroficamente perdute per 35 punti – Barak Obama aveva comunque conquistato la manciata di “grandi voti” (12) che gli servivano per conquistare la maggioranza dei cosiddetti “pledged delegates”. Vale a dire: la maggioranza dei delegati direttamente eletti nel corso delle primarie e dei caucus di questi mesi. Il che non è ancora la fatidica soglia della maggioranza dei 2026 voti necessari per prevalere nella Convention di Denver a fine agosto, ma la pressoché certa premessa del raggiungimento di quell’obiettivo.

Ago della bilancia in questa equilibratissima contesa sono, infatti, i 759 (o giù di lì) “superdelegates”. Vale a dire: i delegati che a Denver ci andranno per, diciamo così, diritto gerarchico (dirigenti e funzionari di partito, congressisti etc.). Le ultime settimane hanno già visto, in questo campo, una lenta, ma inesorabile emorragia di consensi in direzione di Obama (la più importante: quella di John Edwards). E molti dei superdelegati che ancora non si sono pronunciati, già avevano in passato annunciato la volontà di dare, infine, il proprio voto al candidato che avesse raggiunto la maggioranza dei “pledged delegates”. Volendo ricorre a metafore sportive: Barak Obama è, oggi, un corridore ormai in dirittura d’arrivo, a pochi metri dalla linea finale e con gli inseguitori invisibili alle sue spalle. Solo una rovinosa caduta, o un fulmine che, a ciel sereno, lo riducesse in cenere, potrebbe, a questo punto, impedirgli di tagliare il traguardo. Hillary è, invece, una squadra sotto di tre gol mentre, inesorabili, vanno scorrendo i minuti di recupero. Non ha ancora ufficialmente perso, ma solo un miracolo potrebbe salvarla dalla sconfitta. In cifre: per raggiungere i 2026 voti necessari, Barak Obama non deve, dopo il Kentucky e l’Oregon, conquistare che il 6 per cento dei superdelegati. Hillary il 94 per cento. Impossibile.

Ovvia domanda: perché, in queste condizioni, Hillary continua la sua corsa? Solo per la soddisfazione di giungere comunque al traguardo? Solo per arrivare a Denver da candidata, e ricevere lì l’onore delle armi? Forse. Ed è certo proprio per questo che, ieri, parlando a De Moines, Barak Obama non solo ha accuratamente evitato l’affronto di dichiarare chiusa la battaglia che Hillary aveva appena annunciato di voler continuare a combattere, ma s’è anche lanciato in un lungo (sperticato, quasi) elogio della rivale, donna d’ammirabile intelligenza e tenacia, oggi formidabile avversaria, e domani – “quale che sia il candidato democratico” – inevitabile alleata nella lotta per ridare dignità al paese che gli otto anni di George W. Bush hanno umiliato ed impoverito. Certo è, tuttavia, che la Hillary che martedì parlava ai suoi sostenitori in festa nel Kentucky non sembrava affatto una candidata ormai nella deriva di una inevitabile sconfitta ed in cerca soltanto dell’onore delle armi. Hillary – e Bill Clinton che, con lei, è andato in queste settimane moltiplicando la sua presenza nella campagna elettorale – sembrano, al contrario, davvero convinti di avere ancora una possibilità di ribaltare il risultato finale.

Come? I numeri li condannano. Ma al loro arco c’è, in effetti, ancora una freccia. Quella della “qualità”, o, se si preferisce, dell’interpretazione di quelle apparentemente inesorabili cifre, il magico, ineludibile suono (una sorta di canto delle sirene) d’una essenziale parola: “eleggibilità”. Barak Obama – lascia intendere Hillary – avrà anche i numeri che servono per prevalere a Denver, ma non ha gli attributi che servono per vincere a novembre. Perché? Perché la sua vittoriosa marcia nelle primarie ha, in realtà, rivelato molte più debolezze che punti di forza. Una su tutte: il baratro – un baratro culturale – che lo separa dall’America bianca più povera ed incolta, l’America dei cosiddetti “Reagan democrats”, l’America dei valori, Dio, Patria, Fucile e Famiglia, chiusa e tenacemente razzista, ma essenziale per battere il candidato repubblicano. Il che significa che, una volta a Denver, a fronte d’un quasi-pareggio, la Convenzione dovrà valutare, non i risicati numeri d’una maggioranza, ma la sostanza delle cose. In breve: decidere quale dei due candidati ha, al di là dei numeri, le più concrete possibilità di battere a novembre John McCain. Hillary, com’è ovvio, non lo dice apertamente, ma chiarissimo – soprattutto negli ultimi interventi di Bill – è il senso delle sue parole: l’America non è pronta per eleggere un presidente nero. Non lo è nella sua profondità più tenebrosa e meno visibile – la stessa che Barak ha avuto modo di definire “bitter”,amareggiata, rancorosa, nella più famosa delle sue gaffe elettorali -, una bonaccia a conti fatti più importante dei venti impetuosi, giovani ed entusiasti, carichi d’ottimismo, che hanno fin qui sospinto la barca di Obama.

Molti, tra gli osservatori, definiscono spuntata quest’ultima freccia. E probabilmente hanno, da un punto di vista elettorale, perfettamente ragione. Ma è un fatto che la lunga battaglia delle primarie già ha in parte appannato l’immagine di “uomo nuovo” e di “grande conciliatore” che ha accompagnato l’irresistibile ascesa di Barak Obama. Ed è un fatto anche – dovesse Hillary davvero, sulla base di queste considerazioni, trasformare Denver in una “brokered convention”- questa freccia spuntata diventerebbe, per il partito democratico, una freccia avvelenata, un regalo alla campagna elettorale repubblicana gravata dal disastrosa eredità, guerra e recessione, d’uno dei più impopolari ed inetti presidenti della storia americana.

Hillary, insomma, quasi certamente non arriverà a sfidare McCain. Ma potrebbe rivelarsi , giunti al capolinea, la “grande suggeritrice” d’una sua tutt’altro che impossibile vittoria.

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