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Thursday, April 18, 2024
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Evo, l’anti-Chávez

Una serie di quattro post – tutti scritti da Massimo Cavallini – e tutti originalmente pubblicati nel suo blog per “Il fatto Quotidiano” – tutto quello che accomuna e tutto quello che divide i socialismi (entrambi “del XXI secolo) praticati dalla Bolivia di Evo Morales, da un lato, e dal Venezuela di Hugo Chávez, dall’altro. Similitudini e differenze. Parole e fatti.

Bolivia e Venezuela: così uguali, così diverse

‘Lacayos del Imperio’, lacchè, servi dell’Impero. Con questo epiteto – un classico della (peggior) tradizione leniniana ed anche, passando dalla tragedia alla farsa, uno degli insulti più praticati da Hugo Chávez – il freschissimo rieletto presidente boliviano Evo Morales s’è premurato di qualificare, martedì scorso in un’intervista al quotidiano cileno ‘La Tercera’, quattro dei suoi omologhi latinoamericani (il messicano Enrique Peña Nieto, il colombiano Juan Manuel Santos, il peruviano Ollanta Humala e la cilena Michelle Bachelet). Perché mai tanta furia verso quattro colleghi che, con toni ben al di là del semplice protocollo diplomatico, s’erano con lui appena felicitati per il suo nuovo trionfo?

Per molte ragioni, la prima e più immediata delle quali sta ovviamente, come risulta dall’intervista, nella proclamata avversione di Morales alla cosiddetta Alleanza del Pacifico. Ovvero: alla proposta d’integrazione commerciale regionale di recente avanzata da Messico, Colombia, Perù e Cile e da Evo considerata un sordido complotto del ‘libero mercato’. Assolutamente ovvia era tuttavia, dietro la contingenza dell’ingiuria, la volontà di rendere un verbale omaggio, come in una sorta di rito sacrificale, al culto dell’uomo che Morales ha sempre a parole venerato come sua guida ed ispirazione. O, più esattamente: la volontà di confermare sull’unico piano tuttora praticabile –  quello del lessico e quello, ancor più aleatorio, dell’ideologia – il suo legame con il  ‘socialismo del XXI secolo’. Parole e fatti, insomma, le une contro gli altri armate. Tanto che qualche analista non esclude affatto che alla fine, pragmaticamente valutati i pro ed i contro, la Bolivia di Evo possa entrare nella perfida alleanza ordita dal ‘lacchè’ di cui sopra…

La recente storia del Venezuela di Chávez e quella della Bolivia di Evo Morales sono infatti, da un lato, straordinariamente simili nelle loro premesse politico-ideologiche e, dall’altro, straordinariamente diverse nella loro pratica evoluzione. Tanto Chávez quanto Morales sono arrivati al potere per via elettorale, facendo appello agli strati più poveri ed esclusi della società, al culmine d’un decennio (il cosiddetto ‘decennio perduto’) marcato da una profonda crisi economica, politica, sociale e morale causata da vecchi fallimenti (‘desarrollismo’, populismo, esplosione del debito estero nel contesto d’un sistema finanziario internazionale intrinsecamente iniquo)  e, insieme, da nuove a catastrofiche terapie economiche (quelle oggi bollate come ‘neoliberalismo’). Tanto Chávez nel 1999, quanto Morales nel 2005, sono emersi dalle ceneri di sistemi politici disintegrati dalla crisi. Ed entrambi hanno rappresentato, almeno nel loro sorgere, un allargamento della base di democrazie inamidate e corrotte (il ‘punto fijo’ venezuelano) o storicamente fragili e precarie (Bolivia). Entrambi hanno generato nuove Costituzioni ed entrambi le hanno usate per rattrappire (è il caso della Bolivia) o per distruggere completamente (Venezuela) la separazione dei poteri. Entrambi si sono proclamati parte d’una medesima ‘rivoluzione’ e, soprattutto, entrambi sono stati favoriti dal più favorevole periodo economico dell’intera storia latinoamericana. Nessuno prima di loro, in Venezuela o in Bolivia, aveva mai avuto a disposizione tante risorse. E nessuno, prima di loro aveva dirottato tanta parte di queste risorse verso i settori più diseredati della società…

E qui finiscono le similitudini. Anzi: qui le strade di Venezuela e Bolivia – che, pure, continuano a marciare in coppia nel verbosi campi delle retorica ‘antimperialista’ – drasticamente si separano. Perché la Bolivia – che pure ha ridotto la povertà più e meglio di quanto abbia fatto il Venezuela – è oggi un paese con i ‘conti a posto’, un’inflazione al di sotto del 5 per cento e la quantità di riserve monetare (il 48%) più alta del mondo in rapporto alla grandezza del Pil. Un vero e proprio ‘modello’, secondo quello storico simbolo dell’imperialismo che va sotto il nome di Fmi. Ed anche un paese che può guardare con relativa tranquillità al dopo-boom. Il tutto a fronte d’un Venezuela che, più che mai dipendente dal petrolio, vanta oggi uno dei più alti tassi d’inflazione del pianeta e viaggia pericolosamente lungo il ciglio d’un possibile default.

Perché questa differenza? Per molte ragioni, la più importante delle quali è però secondo me questa: sebbene Chávez abbia sempre trattato Evo con il paternalismo e la condiscendenza che si riserva ai figli meno dotati, il socialismo boliviano vanta – grazie soprattutto al vicepresidente Àlvaro García Linera – una base teorica molto diversa, molto più solida e sofisticata di quella del chavismo. Se analizzato a fondo, il pragmatismo boliviano, vera ragione dei successi economici del paese, rivela, alle sue radici, un’analisi approfondita della natura del capitalismo locale (quello che Linera chiama il ‘capitalismo andino-amazzonico) e del suo mancato appuntamento con la modernità. Un analisi, questa, che è per sua natura strutturalmente inconciliabile con il misto di fanfaronaggine e di militarismo che, in un immancabile, rancido odore di caserma, ha sempre caratterizzato il Chávez-pensiero ed il suo più sostanziale derivato: il culto del medesimo Chávez, orrido fantasma del peggior passato latinoamericano.

Un bel tema di discussione per una sinistra (quella di Evo Morales compresa, paradossalmente) sempre più abituata a nutrirsi di slogan.

 

Venezuela: dove tutto comincia e tutto finisce con Chávez

Doppia coda al mio ultimo post, da più d’un commentare giustamente ritenuto ‘troppo sommario’ nella definizione delle diversità ‘politico-teoriche’ che – pur in un medesimo contesto economico, e pur con la comune premessa d’una analoga retorica ‘antimperialista’ ed ‘anticapitalista’ – ha portato il Venezuela di Chávez-Maduro e la Bolivia di Morales-Linera a risultati decisamente contrapposti. In una crisi che va di giorno in giorno aggravandosi, il primo, e sulla cresta dell’onda – con la benedizione del Fmi – il secondo. Rimedio, a scanso di equivoci, non con uno, ma con due post (uno per paese), per evitare nuove ‘sommarietà’ e per restare nei limiti spazio imposti a tutti i blog da ‘Il Fatto’.

In termini di teoria politica il Venezuela è, in effetti, abbastanza semplice da raccontare. Perché, qui con Hugo Chávez tutto comincia e, in effetti, con Hugo Chávez tutto finisce. La leadership, anzi, il culto d’un solo uomo – quello, per l’appunto del ‘comandante supremo’ ora divenuto ‘eterno’– è, in questo caso, l’unico punto fermo, la costante d’una equazione teorica che ha conosciuto nel tempo molte varianti, o meglio, molti corollari, tutti scartati non appena s’approssimavano, a discapito dell’assoluta preminenza del ‘supremo’, allo stato di teoria politica. Una storia, questa, ben delineata dalle sorti di quelli che sono stati i principali mentori politici d’un leader che, per sua natura, non poteva ammettere altri mentori che se medesimo: il comunista Luis Manuel Miquilena ed il sociologo tedesco Heinz Dieterich.

Il primo – un vecchio eroe della resistenza contro la dittatura di Marcos Pérez Jiménez – fu per molti aspetti il ‘creatore’ di Hugo Chávez, l’uomo che convinse della praticabilità della via democratica il carismatico tenente colonnello golpista del ’92, conducendolo poi alla vittoria elettorale dell’99 ed alla svolta dell’Assemblea Costituente (di cui Miquilena fu brillante presidente). Il secondo fu (o meglio, è) il riconosciuto teorico del ‘socialismo del XXI secolo’, nuova via marxianamente incentrata (sintetizzo) sulla sostituzione del valore di mercato con il valore del lavoro, in un contesto nel quale il socialismo, liberatosi dei suoi vizi ‘statalisti’, è destinato ad incontrarsi con un liberalismo che s’è a sua volta scrollato di dosso il fardello del capitalismo. L’uno e l’altro – Miquilena nel 2002, Dieterich nel 2007 – costretti poi ad allontanarsi, con più o meno pronunciato orrore, dal ‘frankestein’ che avevano contribuito ad assemblare, non appena avvertirono come il culto del grande leader andasse assorbendo (ed annullando) ogni altra variante teorica o pratica.

Tutto sommato le tracce più profonde da altri lasciati nel ‘Chávez-pensiero’ – se esistono tracce che non siano, in perfetta circolarità, il Chávez-pensiero medesimo – non sono né quelle di Miquilena, né quelle di Dieterich, ma quelle d’un più antico ispiratore dell’ ‘eterno’: l’argentino Norberto Ceresole, legato ai ‘carapintada’ di Aldo Rico e fervente negatore dell’Olocausto, dal cui pensiero – fondato sull’iper-leaderismo d’un ‘caudillo’ capace di sintetizzare l’unione tra popolo e forze armate – chiaramente traspaiono le radici fasciste del peronismo. Chávez s’è molto discretamente allontanato da Ceresole – senza mai rinnegarne le teorie – intorno al 2004, quando la sua ombra antisemita aveva cominciato a diventare fonte di grande imbarazzo per il presidente della Repubblica Bolivariana. Ma l’idea dell’iper-leader è rimasta la vera (unica) fonte della ‘union civico-militar’ – e di quel ‘Alto Comando Civico-Militar’ – che è tuttora, a dispetto della Costituzione, parte integrante della filosofia del regime. E proprio a questo – alla natura essenzialmente e brutalmente militare delle idee che hanno sospinto il processo venezuelano – mi riferivo nel precedente post, laddove scrivevo (cosa che ha molto contrariato i commentatori più affini al ‘supremo’) dell’ ‘odore di caserma’ che (da sempre, ma oggi più che mai) il chavismo va esalando.

Al comandante ‘supremo ed eterno’ il governo venezuelano ha oggi tra l’altro dedicato – ed inaugurato con tutta la solennità del caso – un ‘Instituto del Altos Estudios del Pensamiento de Hugo Chávez, diretto da Adán Chávez, fratello dell’iper-leader scomparso. Ed interessante sarà vedere, adesso, quanto davvero ‘alti’ riusciranno ad essere studi che, come riferimento, non hanno – oltre ai dogmi d’un culto essenzialmente fondato sulla mistica falsificazione della storia del Venezuela e di quella personale di Hugo Chávez – che i discorsi e le maratoniche esibizioni televisive del grande leader. O, al massimo, quel progetto di riforma costituzionale che – sconfitto nelle urne nel 2007 – il comandante supremo aveva molto pomposamente chiamato “nuova geometria del potere”. Ma dal quale altro non emergeva – oltre la pretenziosità del linguaggio ed una grandeur a tratti grottesca – che la volontà di potere del ‘grande geometra’ (vedi qui un articolo da me scritto all’epoca e qui il documento in questione).

Questo il retroterra ‘teorico’ del disastro economico (e politico e morale) venezuelano. Tutt’altra storia è, invece, quella della Bolivia di Evo Morales e di Àlvaro García Linera….

 

Bolivia: alla ricerca del “capitalismo andino”

‘Pragmatico’. Questo, di norma, è l’aggettivo usato per rimarcare quel che separa il socialismo boliviano da quello venezuelano. O meglio: per spiegare, a fronte d’una comune retorica anticapitalista ed antimperialista, le differenti politiche economiche ed i contrapposti risultati – in un auge scandita dagli sperticati elogi del Fmi, il primo, in una crisi ai limiti della bancarotta il secondo – perseguiti da due leader che si sono sempre proclamati parte d’una medesima rivoluzione. Da un lato la Bolivia di Evo Morales, capace d’amministrare con molto contabile saggezza (in modo ‘pragmatico’, per l’appunto) gli enormi proventi garantiti dal cosiddetto ‘viento de cola’, il ‘boom dei prezzi delle materie prime che, nell’ultimo decennio, ha sospinto in avanti tutte le economie latinoamericane. Dall’altro il Venezuela che Nicolás Maduro ha ereditato, nelle vesti di ‘figlio’ ed ‘apostolo’, dal tenente colonnello Hugo Chávez Frías. Vale a dire: un culto parareligioso che va crescendo ed un modello economico che va disintegrandosi, vittima della ‘grandeur ideologica’ e della inettitudine che, di quel culto, sono in buona parte, una diretta conseguenza.

Da un lato conti in regola, inflazione e deficit sotto controllo, riserve valutarie al 48 per cento del pil (la più alta percentuale del mondo), nazionalizzazioni ‘strategiche’ e ben gestite, dialogo (a dispetto della spesso brutale ostilità degli imprenditori) con le forze produttive locali, programmi sociali innovativi, efficaci e pienamente compatibili con i bilanci dello Stato. Dall’altro lo sperpero di ricchezze petrolifere gestite senza alcuna trasparenza per finanziare – nella peggior tradizione caudillista e populista – una gigantesca ed insostenibile ‘macchina del consenso’; negozi vuoti ed inflazione alle stelle, espropriazioni a pioggia, capricciose ed ingestibili, che hanno di fatto distrutto l’apparato produttivo non petrolifero. Da un lato un’utopia paziente e ‘laica’, che sa far di conto. Dall’altro un’ideologia militarizzata, fanfarona e confusa, diventata, anzi nata come culto della personalità e finita – economicamente e non solo – in un rosso profondo…

Ma è davvero questo – ‘pragmatico’ – l’aggettivo giusto? Io credo di no o, almeno, non del tutto. Poiché se è vero che un molto realistico rispetto degli equilibri macroeconomici è, a dispetto della retorica, parte integrante della politica boliviana, vero è anche che questo ‘pragmatismo’ è frutto non solo, per così dire, d’un pratico senso della politica, ma anche, anzi soprattutto, d’una visione strategica molto più sofisticata e profonda di quanto i discorsi di Evo Morales lascino di norma intravvedere. E questo perché dietro la parole di Morales – ed ancor più dietro la politica del suo governo – c’è sempre stato il pensiero del vicepresidente Àlvaro García Linares, matematico e sociologo, ex ideologo, negli anni ’90, del EGTK (Esercito Guerrillero Tupác Katari), da molti considerato uno dei più brillanti intellettuali dell’America Latina d’oggi. Un pensiero che, pur frutto d’una evoluzione complessa, può essere riassunto – sfidando prevedibili accuse di semplificazione – nella parafrasi d’un antica massima latina. Quella che, tratta, mi pare dal ‘Epitoma rei militaris’ di Vegezio, così recita: ‘Si vis pacem, para bellum’, se vuoi la pace, prepara la guerra. Ovvero: ‘se vuoi il socialismo, prepara il capitalismo’.

In sostanza: se nella realtà Boliviana – da Linera analizzata sulla base di quello che lui definisce ‘marxismo andino’ – si desidera raggiungere la meta d’un socialismo originale, occorre prima costruire un altrettanto originale capitalismo. Per l’appunto: il ‘capitalismo andino-amazzonico’, capace d’amalgamare quelle che Linera chiama le ‘quattro civiltà’ – la industriale, la domestica informale, la comunale e la amazzonica – e di costruire una ‘modernità economica’ vincolata ai mercati globali ed allo sviluppo tecnologico. Base per la costruzione di questo capitalismo – passaggio indispensabile per la costruzione del socialismo – è, per Linera, la creazione d’uno Stato forte. Laddove ‘forte’ sta per soprattutto per ‘decolonizzato’. Ovvero: liberato d’ogni scoria coloniale perché capace di riflettere appieno la ‘identità multinazionale’ della Bolivia. Questo è quello che ha fatto la nuova Costituzione del 2007, trasformando per l’appunto la Bolivia in uno ‘Stato multinazionale’. Ed è a questo Stato Multinazionale’ – ‘fort’e perché espressione di tutte le autonome culture che lo rappresentano e non solo della vecchia oligarchia bianca – che è ora affidato il compito di spingere la Bolivia in direzione del ‘mercato globale’.

I ‘conti a posto’ e la ‘resposabilità fiscale’ che tanto entusiasmano i tecnici – per antonomasia ‘neoliberali’ – del Fmi, non sono dunque che questo. Non tanto, come molti insinuano, un ‘pragmatico’ cedimento alle implacabili leggi del mercato, quanto la molto ragionata parte d’un processo di costruzione d’un forte capitalismo boliviano. O, se si preferisce, un momento della battaglia per la modernità, tappa indispensabile lungo la strada che porta al socialismo. Una strada lunga, ma ancora ben aperta. O, almeno, una strada che ancora non ha portato, come nel Venezuela di Chávez, in un vicolo cieco.

 

 

 

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