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Covid delle mie brame, chi è il più scemo del reame?

Sono ormai passati 173 giorni dal fatidico instante nel quale, giunto al tramonto l’anno del Signore 2019, le autorità cinesi comunicarono al mondo la presenza, in quel di Wuhan, di dozzine di casi d’una estremamente contagiosa variante di coronavirus. E più di sei mesi sono trascorsi dall’annuncio del primo morto da Covid-19. Sei lunghissimi e, insieme, cortissimi mesi che – volendo riesumare il titolo delle celebri cronache da John Reed dedicate ai dieci decisivi giorni della Rivoluzione d’Ottobre – hanno davvero, a detta di tutti, “sconvolto il mondo”. E che hanno, in questo mondo a soqquadro, messo impietosamente a nudo molte cose. O, ancor meglio: che hanno – come nella celeberrima favola di Andersen – impietosamente denudato molti re.

E proprio questa è la domanda: chi, in questi sei mesi che tutto hanno cambiato, ha mostrato al mondo la nudità più oscena? Quale “re” ha, sullo sfondo della pandemia, detto e fatto, esponendo se stesso, le cose più sconce e stupide? Chi – volendo restare nel mondo delle parafrasi favolistiche – si è, rimirando se stesso nello specchio del Covid-19, rivelato il più brutto del reame?

Mettendo da un lato il caso della Cina (le cui originali responsabilità meritano ovviamente una discussione a parte) e quello dell’Italia (questo per ragioni di conflitto d’interesse e, insieme, per la proverbiale “carità di patria”), va da sé che la lotta per la conquista delle posizioni di testa in questa non propriamente lusinghiera classifica vede parecchi contendenti. Boris Johnson, grande condottiero del Brexit, ha sicuramente detto – prima di esser lui stesso colpito quasi fatalmente dal virus – cose da “top ten” in materia di “immunità di gregge. E tra i più validi antagonisti non sorprendentemente figurano pressoché tutti i leader che, con la democrazia, vantano le più problematiche relazioni. Quelli che – come Putin, Orban, Duterte, Maduro, Daniel Ortega – hanno colto l’occasione della pandemia per stringere ulteriormente il cappio dell’autoritarismo. E quelli che, già da prima autoritari che di più non si può, hanno, nei più medioevali rimasugli di quello che fu l’impero sovietico, suggerito le più stravaganti cure per la pandemia. Il lavoro con trattore nei campi, più una bella sauna accompagnata da un’abbondante libagione di vodka, nel caso di Alyksandr Lukasenko, padre-padrone della Bielorussia; ed inalazioni con i fumi d’una pianta aromatica scientificamente nota come “ruta graveolens”, nel caso di Gurbanguly Berdimuhamedow, presidente a vita del Turkmenistan e degnissimo erede di quel Saparmura Niyazov che, nel 2005, costrinse i medici locali a sostituire il giuramento di Ippocrate, con un atto di eterna fede rivolto a se medesimo.

Tutti indiscutibilmente brutti. Tutti brutti da applausi a scena aperta. Ma anche tutti inevitabilmente destinati a lottare unicamente per il bronzo. Perché non v’è dubbio alcuno: sui due più alti gradini del podio (in quale ordine è da vedere) sono destinati a salire i due personaggi – Donald J. Trump, presidente degli Stati Uniti d’America, e Jair Messiah Bolsonaro, presidente del Brasile – che, come vuole una metafora sportiva, hanno in questi mesi fatto il vuoto alle proprie spalle. Anche perché sono alla guida dei due paesi che, in fatto di pandemia, occupano oggi i due primi posti in quanto a infettati e defunti.

Essendo gli Usa permanentemente nel cono di luce dei riflettori, delle performance del primo di questi due uomini “soli al comando”, già si è detto praticamente tutto. A partire dallo splendido “do di petto” con il quale ha tempo fa “suggerito” la possibilità di dar scacco matto al Covid-19 attraverso bombardamenti con raggi ultravioletti e con iniezioni di disinfettanti nei polmoni. Anche se va subito aggiunto che, in realtà, ciò che più ha contraddistinto la gestione trumpiana della pandemia è stato – in assoluta continuità e ben oltre questi vertici di tenorile virtuosismo – il rossiniano crescendo dei suoi proclami di vittoria a fronte di cifre che, quella vittoria, immancabilmente sbugiardavano. I casi sono 15 e “prestissimo saranno zero”? Vittoria. I casi sono un milione e i morti centomila? Trionfo. L’America è prima al mondo (per infettati e per morti) in materia di coronavirus? Lo è soltanto perché, grazie a lui è prima al mondo (cosa aritmeticamente falsa) nei test di controllo. Vittoria, trionfo e apoteosi.

Meno conosciuta – anche se altrettanto brutta – è, invece, la storia delle relazioni tra Jair Bolsonaro e la pandemia. Una storia lunga, tortuosa e sordida. Ma anche a suo modo riassumibile in un estremamente laconico “E daí?”, e allora? Perché è proprio così – con una variante del mussoliniano “me ne frego” – che il presidente brasiliano da par suo usa rispondere a quanti gli chiedono conto dei morti. Così, o con altre ed ancor più triviali testimonianze di molto mascolina indifferenza. “Não sou coveiro”, ha più volte ricordato, non sono un becchino, non mi occupo di cadaveri, tutti dobbiamo morire e con la morte io ho un rapporto da uomo vero, non da “moleque”, moccioso.

Jair Messiah Bolsonaro ha, mentre il Brasile rapidamente scalava ai primi posti per infettati e defunti, oscillato tra il più demenziale negazionismo – non si tratta che d’una “gripezinha”, un influenzina – ed un ancor più demenziale orgoglio virile, condito da strambe ed offensive teorie su una supposta “immunità” del brasiliano (il brasiliano – ha detto e ripetuto Bolsonaro – può tuffarsi in una fogna ed uscirne sano come un pesce).

Avrò modo di tornare più in dettaglio (ne vale la pena) sulle performance dei due ormai indiscutibili capiclassifica. Ma, intanto, una cosa mi preme dire. Molti sembrano convinti – e molti altri sperano – che il mondo possa uscire migliore (o almeno non troppo peggiore) dalla pandemia che lo affligge. Io credo ci si possa accontentare di trovare, all’uscita dal tunnel (se uscita ci sarà), un mondo senza Trump e senza Bolsonaro.

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