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Cochabamba, la lettera nel parco

16 aprile 2066

di Gabriella Saba

 

“Calorcito, verdad?”. Ero seduta su una panchina a Cochabamba. Tanto per cambiare. Passavo quasi tutto il mio tempo seduta sulle panchine, quando non ero in giro sugli autobus. Leggevo il quotidiano locale, o prendevo il sole.

La ragazza aveva una voglia matta di attaccare bottone. “Straniera?”. “Si”. “Di dove?”. “Italiana”. “Lontano”. “Si”. “Qui da tanto?”. “Parto domani”. Non era vero, ma volevo che pensasse che non avevo più molti soldi. La ragazza aveva una faccia che sembrava un uovo, brutti occhi, cattivi, e non mi fidavo.

“Lei, di dove?”, ho chiesto anch’io. “Potosì”, con un gesto come per dire “Non è colpa mia”. Ho detto: “Altro clima”. “Si”, ha risposto, sospirando. “Freddo”. Si è raccolta su stessa, ha fatto il gesto di rabbrividire. Più che una brutta faccia, aveva una faccia equivoca, la pelle porosa sudava sotto il sole.

Si è spostata sulla panchina fino a incollare quasi la sua gamba alla mia. Mi sono guardata intorno. La piazza era piena di gente, ma non voleva dire.

“Senta”, ha detto a voce bassissima. “Mi serve un favore”. Ho nicchiato: “Non so se”. “E’ un favore facile”, ha continuato in fretta. “E’ facile se lei sa leggere”. C’era qualcosa che non mi piaceva in quella storia, ma la ragazza aveva già tirato fuori un lungo foglio scritto a mano e me l’aveva sbattuto sotto gli occhi. Ha detto, così in fretta che non riuscivo a seguirla: “Un compare mi ha mandato qui per una commissione da un altro compare suo e mi ha dato questo foglio da dargli ma non so cosa c’è scritto perché non so leggere. Così se lei mi può dare un’occhiata”. In vent’anni che andavo in America Latina era almeno la terza volta che ci provavano con quel giochino, così immaginavo il contenuto della lettera e la lessi senza nessuna curiosità. “Caro compare”, diceva il foglio, “ti mando una paesana che ti darà quella roba che mi hai chiesto, in cambio dalle qualche soldo, ma pochi, non dirle assolutamente quanto è grosso l’affare. La paesana è una ragazza semplice e non sa leggere, così puoi fregarla quando e come ti pare. Inoltre è molto povera quindi si accontenterà di qualunque cifra…”, e così via.

Ho restituito la lettera alla ragazza che mi fissava ansiosa. “E’ tutto ok, il tuo compare è una brava persona”. La ragazza è diventata rossa. “L’ha letta bene dona? Mi sa che non l’ha letta tutta. Legga bene per favore”. “L’ho letta benissimo, dona, dice che sei una brava ragazza e che ti paghi quanto ti deve pagare perché non hai molti soldi. Dice che anche se l’affare non è granché ti deve pagare bene perché hai fatto tanta strada”. La ragazza era così rossa che ho avuto paura che mi esplodesse lì. “Così dice la lettera?”, ha chiesto sforzandosi di parlare senza scoppiare. “Così dice. E’ ok, no?”. “E’ sicura che non dice altro?”, ha chiesto la ragazza ma ormai si capiva che lo diceva tanto per dire. Se avessi abboccato mi avrebbe portata da quel tipo che l’avrebbe dovuta fregare e mi avrebbero levato fino all’ultimo boliviano. Non ce l’ho fatta a non aggiungere, sorridendo: “Ma scusa non sei contenta che ti pagano il giusto?”, e solo allora la ragazza è esplosa davvero, ma è esplosa piano e come a sprazzi, contenendosi per non farsi sentire oltre la panchina. “Figlia di puttana”, sibilava, paonazza. “E puttana tu stessa. Maledetta vacca, cornuta di una italiana di merda”. Mi sono alzata e mentre le passavo davanti per andarmene le ho schiacciato volutamente un piede. “Prova a dire qualcosa e chiamo la polizia”, le ho detto, con odio, e in quel momento sarei stata felicissima di farla sbattere dentro per qualche mese, e non perché mi aveva insultato o perché aveva cercato di fregarmi, non lo so perché. Ho camminato per cinquanta metri e poi mi sono girata a guardare la panchina ma la ragazza non c’era più, era a pochi passi e stava parlando con una tizia con le infradito con i fiori e una gonna larga tipo anni Settanta. Sembrava una nordeuropea e faceva larghi sorrisi alla ragazza che le parlava fitto fitto agitandosi tutta, in mano la lettera.

 

 

 

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