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Cile: quel che resta del macellaio

12 marzo 2008

Di Gabriella Saba

 

Che in Cile abbia vinto, alla fine, il dittatore morto Augusto Pinochet sono in molti a dirlo e non si capisce se si tratti di un luogo comune, di una specie di mantra o di una verità sacrosanta che l’osservazione diretta della realtà porta a volte, ahimé, a confermare. “Basti vedere che alla inaugurazione del memoriale di Jaime Guzmán ha assistito il ministro Andrade”, si lamenta Tomás Mosciatti, direttore della radio Bio Bio, la più ascoltata nel Paese e l’unica che, ai tempi della dittatura, riuscì a mantenere uno straccio di indipendenza. Guzmán, ammazzato nel 1991 da estremisti del gruppo Frente Patriotico Manuel Rodríguez, fu un ideologo del new deal pinochetista e fondatore della Udi, il partito ultraconservatore di destra. Gli hanno dedicato un memoriale alla cui inaugurazione, qualche settimana fa, ha assistito Osvaldo Andrade, ministro del Lavoro, socialista, uno tra i più a sinistra della coalizione di governo. La Bachelet, invece, non c’è andata, dopo che i giornali avevano arroventato l’aria con polemiche e dibattiti sulla opportunità o meno della sua presenza.

 

Il memoriale a Guzmán può essere visto come un dettaglio o un simbolo, ma anche senza quello c’è chi dice, e sono molti, che Pinochet abbia vinto, alla fine. O meglio, che il meraviglioso miracolo economico cileno – il cui costo interno è considerato più o meno accettabile a seconda della angolatura politica di chi lo guarda – sia esattamente, e nella sua struttura, la società immaginata dalla dittatura, il punto di arrivo della “democrazia protetta” pensata da Guzmán: una democrazia formale ma blindata contro “demagogie populiste” e in cui governi democratici e capitalismo estremo vanno a braccetto. Tradotto in termini più umani: il Cile è un Paese che punta tutto sulla scommessa individuale, peccato che questa non sia per nulla facile e per la maggior parte resti un sogno, con poca meritocrazia e un carico da novanta di stress e frustrazioni.

 

“Il memoriale di Guzmán?”. Cena tra amici, sono avvocati e architetti. Alzate di spalle, occhiate di sbieco, il fumo delle sigarette che si perde in un silenzio imbarazzato. “Il fatto che qui, non si parla molto di politica”. L’avvocato è brillante, colto. “La discussione è molto polarizzata, ci sono troppe ferite. Parlare di politica, in Cile, non è ben visto”. E’ un altro leit motiv. “Il fatto è che non ci siamo mai confrontati sul serio. Non c’è stato dibattito”. Viera Stein non ha paura di parlare di politica, a otto anni fece la sua prima occupazione, più tardi entrò nel Mir e dopo il golpe andò in esilio in Francia. “La vittoria della destra consiste in questo, che il governo di Pinochet cambiò le norme che regolavano il Paese in modo tale che queste non potessero venire modificate ma restassero uguali nella struttura”. Quale struttura? Le ricette iperliberiste dei Chicago Boys il cui programma di privatizzazioni si estese a tutto, comprese la scuola, le pensioni e l’acqua. I governi della Concertazione hanno modificato qua e là, e fatto aggiustamenti (per esempio la recente riforma pensionistica), introdotto dove potevano una parvenza di ammortizzatori sociali ma la sostanza è rimasta intatta. Il sistema binominale introdotto da Pinochet rende difficili trasformazioni sostanziali che molti cileni, peraltro, non è detto vogliano.

 

Non le vogliono o le hanno accettate? Il sociologo Tomás Moulian ha dedicato al suo Paese un saggio che ha fatto epoca, si intitola Chile actual, Anatomía de un mito, e racconta il percorso del Cile dalla dittatura ai giorni nostri e il processo di trasformismo storico che lo ha mantenuto gatopardescamente uguale a se stesso, però spogliandolo dalle sue forme più brutali.

 

Protagonista di questo mondo è il cittadino credit card, “normalizzato, messo in ordine……deve subordinare le strategie del conflitto alle strategie di sopravvivenza”, scrive Moulian.

 

Dunque, il nuovo Cile. Il tasso di povertà più basso dell’America Latina (il 13,7 per cento nel 2006), ma anche lo scarto più alto tra ricchi e poveri, dopo il Brasile (secondo la Cepal, il 15 per cento della popolazione ha in mano quasi l’80 per cento della ricchezza nazionale). Stipendi minimi di 150.000 pesos, circa 300 dollari, che bastano si e no a pagare affitto e trasporti: un biglietto sui mezzi urbani costa fino a oltre 400 pesos, quasi un dollaro. Per sfangarla molti cileni fanno due o tre lavori. La vita è cara, l’istruzione è proibitiva e anche la salute, le medicine. La privatizzazione delle scuole è uno dei problemi del Paese, perché innesca una lunga catena di ingiustizie e differenze sociali. I licei pubblici sono notoriamente pessimi e chi li frequenta ha poche probabilità di trovare lavoro. Qualunque sacrificio è dunque buono pur di mandare i figli nei licei privati, ma la retta di un liceo di medio livello si aggira intorno ai 400 dollari al mese. Più alto è il livello del liceo, più è facile ottenere un Psu decente, il punteggio finale che permette l’accesso alle università: queste ultime sono sovvenzionate, private o statali, ma in ogni caso vanno pagate. La retta annuale si aggira, mediamente, intorno ai 3.500 dollari, ma quella mensile dell’Universidad Católica, prestigiosa e conservatrice, controllata dei Legionari di Cristo, arriva a mille dollari al mese. Agli studenti più poveri vengono offerti crediti solidali che dovranno restituire a rate, ma che non bastano a coprire la richiesta crescente. Francisco Castañeda ha impiegato 12 anni a dare indietro i soldi che gli permisero, povero e intelligente, di frequentare la prestigiosa Universidad de Chile, facoltà di Economia. Anche se usciva da una scuola pubblica, ottenne un Psu molto alto, un fatto raro. Adesso è un autorevole economista, professore dell’Università di Santiago e si batte contro i mulini a vento di un sistema scolastico che considera “profondamente ingiusto ed escludente, perché serve a consolidare un sistema di equilibri che nessuno ha voglia di smuovere”. Dunque. Più prestigiosa è la scuola e meno difficile il salto sociale, il sogno di tutti. La differenza in classi è feroce e i cuicos, la classe alta (più per lignaggio per che soldi), non si mischiano con gli altri cileni. “Di giorno faccio il carabiniere e il fine settimana e la notte il tassista”, mi spiega l’uomo, sui quarant’anni, dai lineamenti indigeni. “Anche mia moglie fa due lavori. Ci ammazziamo di fatica ma siamo riusciti a mandare i nostri due figli alla Universidad Católica, facoltà di medicina”.

 

Spalanco gli occhi. L’uomo ha un aspetto dimesso. “Medicina alla Católica? Con quello che costa”. Il tipo sorride contento: “Ne vale la pena, magari si sposeranno con due cuicas e avrò un nipotino biondo”. Biondi e moreni, cuicos e flaites. L’appeal di biondi e bionde, per quanto slavati, è inquietante. “Non c’entrano loro, è il mondo che rappresentano”, mi spiega un amico. All’inizio non ci si crede, eppure chi non capisce le differenze razziali e di classe in Cile non ha capito nulla. I cuicos (o pitucos): i discendenti della vecchia borghesia basco-castigliana e poi, per estensione, anche di quella tedesca, francese e inglese. Non c’è parola che si senta pronunciare più spesso. Adesso se ne è aggiunta un’altra: i siuticos. Il giornalista Oscar Contardo, 34 anni, penna di punta del quotidiano Mercurio, ha dedicato a questi ultimi un libro che, in pochi mesi è già arrivato alla terza edizione. I siuticos sono la classe media arricchita che imita i cuicos. “Ho voluto affrontare il problema del razzismo e del classismo che affliggono il Paese, e parlare dell’enorme spinta ad avanzare socialmente che c’è oggi in Cile, discriminando quelli che stanno più in basso. I nuovi ricchi sono ovunque ma il passaggio da una classe all’altra è difficile, raro e sospetto”. Contardo, per dire, è moreno, ma non ne fa un problema. “I meticci, qui, non si riconoscono nella loro razza. Non è come negli Stati Uniti. C’è un problema di accettazione della propria appartenenza che rappresenta un freno allo sviluppo”.

 

“Ma tu, sei bianco o nero?”, chiedo ogni tanto, e non perché sia daltonica ma perché solo i cileni riescono a decifrare gli imperscrutabili segni che permettono di distinguere i meticci dai veri, autentici discendenti degli europei. “Ho paura che i genitori del mio fidanzato facciano qualche storia”, mi spiega una amica dal viso andino. “In casa sua, sono tutti biondi”.

 

La scommessa individuale passa anche per quello: il superamento dei limiti stabiliti (non formalmente) dalla propria razza, quando questa non sia di un bianco impeccabile, ma è una battaglia solitaria. “Non credo nella politica, ognuno deve farsi strada da solo”, ho sentito ripetere almeno qualche centinaio di volte, con sfumature che vanno dalla fierezza alla rassegnazione. A pronunciare quella frase sono spesso trentenni di classe media in carriera, i giovani dirigenti con laurea prestigiosa che coltivano con diligenza il sogno della casetta nel Barrio alto, il quartiere dei ricchi. A Santiago, dove vivono sei milioni dei sedici milioni di cileni, la gente corre, corre sempre. “Vado come un pazzo, ho un sacco di lavoro”, è un altro mantra che gira come un disco rotto. Il sistema impone orari duri e stipendi spesso bassi, ma sono pochi a ribellarsi. Soltano il sei, sette per cento affidano i loro rapporti con le aziende alla contrattazione collettiva, gli iscritti al sindacato sono l’11 per per cento.

 

La ley laboral del 1978 ha ridotto il diritto allo sciopero, che viene permesso soltanto nel periodo successivo alla negoziazione delle parti, ed è legato alla negoziazione o rinegoziazione di un contratto collettivo. Il datore di lavoro ha inoltre il diritto di sostituire il lavoratore in sciopero, vanificando l’efficacia della protesta. In tutto il Sudamerica il Cile è l’unico Paese a prevedere la norma del rimpiazzo, che molti politici della Concertazione e lo stesso ex presidente Ricardo Lagos hanno giudicato iniqua. Nessuno di loro ha però alzato un dito, né proposto una riforma per cambiarla.

 

“I sindacati sono deboli, e in più demonizzati dalla stampa, che è tutta di destra”, spiega Jorge Hurtado, professore di Diritto del Lavoro della Università Diego Portales. “Gli scioperi e le proteste sono associati a qualcosa di violento, di estremo”. La proprietaria dell’edicola sotto casa si fa il segno della croce quando le dico che sto andando in centro. “Non vada”, mi dice afflitta. “Stanno facendo una manifestazione e non si sa mai”. Per inciso, la proprietaria è comunista.

 

Dicono che la paura sia una cosa difficile da smaltire, una volta che ti è entrata dentro. E in diciassette anni quel sentimento ha avuto tempo per diventare una parte di loro. “Io, fino a poco tempo fa, avevo paura a parlare di politica”, dice Elisabeth, psicologa. “Solo da qualche tempo ho ricominciato a esprimermi”. Elisabeth insegnò all’Università de Chile fino al ‘73, quando il governo di Pinochet decise di chiudere il Dipartimento di Psicologia, considerato sovversivo. “La dittatura ha provocato ferite profonde, ha lasciato tracce in tutti noi”. I cileni sono stressati? “Sono molto stressati, i bambini sono spesso infelici. Il modello neoliberale ha esasperato la competiività, che è diventata l’unico valore. I genitori sono assenti, terrorizzati dalla paura di perdere il lavoro, dall’ansia di non riuscire a pagare la casa, la retta della scuola, e di riflesso stressano i ragazzini con esigenze sempre maggiori, l’ansia da prestazione scolastica diventa un angoscia per gli adolescenti”. Il Psu. Sembra l’innocua sigla di un partito politico e, invece, produce più danni di una depressione. Un mese fa la Commissione della Oecd (Organizacion Economica de Cooperacion y Desarrollo), ha denunciato “la diseguaglianza nell’accesso all’istruzione per gli studenti che hanno origini sociali distinte”. Il governo si è impegnato a varare qualche misura per renderla più equa, ma intanto la legge Loce approvata da Pinochet è ancora in vigore. Un nuovo progetto di legge, appena presentato, migliorebbe la vecchia normativa, centralizzando l’istruzione, ma non è certo che venga approvato.

 

“Professor Loyola, alla fine questo è il Paese voluto da Pinochet?”. Hernán Loyola è un autorovole studioso di Neruda che da trent’anni vive tra Santiago e Sassari, dove insegna. “Pinochet non è stato che uno strumento del capitalismo in Cile. Il pionere del neoliberismo estremo, il primo ad applicarlo. Con lui, si è realizzato il primo esperimento di capitalismo nel mondo che è stato poi applicato in molti Paesi, ed è coinciso con il passaggio dal modernismo al postmodernismo. La risposta è si e no allo stesso tempo”. Alla gente piace, quel modello? “La gente è rassegnata e ha paura. Preferisce tenersi quello che ha perché diffida di quello che non conosce”. Come le sono sembrati i cileni, al suo rientro in patria? “Progrediti e però nevrotici, completamente alienati. E questa ossessione del consumo……”.

 

A girare per Santiago l’impressione è quella di un gigantesco mall, il cui costante affollamento non coincide con le realistiche possibilità di spesa degli abitanti. I negozi sono sempre zeppi, nelle caffetterie e ristoranti non trovi un posto. I centri commerciali sembrano formicai, nei supermercati c’è sempre una lunga fila alle casse. Sulle vetrine delle boutique, incoraggianti scritte promettono acquisti di scarpe e televisori, magliete e ferri da stiro in quattro, cinque, venti cuotas. Le quote sono le rate e quasi tutti i cileni comprano en cuotas che fanno apparire meno oneroso l’acquisto ma indebitano l’acquirente con interessi spaventosi. Qualunque grande tienda offre d’altronde tarjetas da cui i cileni possono detrarre un tot al mese, ovviamente a rate, il sistema si chiama retail. “Non ci sono limiti di spesa”, spiega Castañeda. “D’altronde, si tratta di un mercato poco chiaro, non c’è una regolamentazione della Banca Centrale. l tassi di interesse sono altissimi, fino al 60 per cento alla fine dell’anno, ma questo non è un deterrente. La tarjeta serve a soddisfare un bisogno di consumo compulsivo generalizzato, e infatti il credito retail sta superando quello bancario”. Il saggio di Moulian dedica parecchio spazio al cittadino creditizio, a quel cileno caricato di tarjetas e soddisfatto del suo potere di acquisto. L’accesso al credito è d’altronde permesso a chiunque, ne è escluso soltanto il dieci per cento della popolazione della capitale.

 

Il resto, può finalmente permettersi quei beni che fino a poco tempo fa erano riservati ai ricchi, ma questo non aumenta la mobilità sociale. I ricchi restano ricchi e i poveri, in generale, poveri. La classe media resta classe media. Un auto di lusso (comprata in cinquanta rate), non dà l’accesso al mondo dei cuicos. “En donde vives?”, è la prima cosa che ti chiedono, di solito, questi ultimi, dopo averti detto dove vivono loro. Il mondo dei ricchi si chiama il Barrio alto, ed è l’immensa zona arrampicata sulle colline che sembra un altro mondo. Una Miami tanto più altolocata quanto più ci si spinge in alto, nei quartieri come La Dehesa e Alto las Condes in cui le case sono simili a baite e le strade ovattate, grandi giardini circondano le ville cintate e giovani mamme bionde balenano dietro i finestrini di auto di lusso. Il Barrio alto è il sogno dei santiaguini che non ci vivono, la nevrastenica ossessione di miglioramento sociale. Chi abita lì non scende volentieri nel resto della città, e in genere non è contento che molta gente “ordinaria” stia andando a vivere in quei quartieri. A dire il vero, i cileni non hanno l’aria di essere contenti mai. Il Cile non è un Paese allegro. E’ un posto piuttosto triste in cui la gente diffida per abitudine o per i postumi di una storia recente, niente a che fare con il resto dell’America Latina. Perfino il numero dei suicidi è in crescita, rispetto al resto del Subcontinente. Gli antidepressivi si sprecano e alle cene si parla del proprio psichiatra come nei film di Woody Allen. “Il mio psichiatra mi ha detto ieri…..”. “Non dormi da due notti? Ti dò l’indirizzo del mio psichiatra”. Qualche settimana fa, i dipendeneti statali sono scesi in sciopero per chiedere un aumento. Hanno marciato con fischietti e bandiere, suonato tamburi e ballato merengue. Le manifestazioni di piazza, in Cile, sono di solito cupe. Ma questa, sembrava una festa. Chiunque passasse di lì, si metteva a ballare. Un evento di quel genere era quasi un miracolo. Uno scossone all’apatia e un ritorno di un attimo a tempi in cui, mi dicono, tutto era allegro e solare, la gente più buona e felice, e non era nemmeno troppo tempo fa.

 

 

 

 

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