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Tuesday, March 19, 2024
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C’era una volta il Grand Old Party….

“Carnival barker” e “pathological liar”. Imbonitore da baraccone e bugiardo cronico. Così, all’alba dell’Anno del Signore 2016, nel pieno delle primarie repubblicane, l’ex governatore del New Jersey ed aspirante candidato presidenziale, Chris Christie, aveva ripetutamente definito Donald J. Trump, il palazzinaro bancarottiere, divo di reality show e stagionato protagonista delle cronache scandalistiche newyorkesi, che andava guidando – primo in un gruppo di nove contendenti – la corsa alla nomination. E pressoché l’intero establishment repubblicano gli aveva, allora, fatto eco, in una sorta di collettivo esorcismo e con ancor più pesanti epiteti, deridendo e biasimando il sorprendente – e, si pensava, fugace – front-runner della contesa. Altri tempi.

Giovedì scorso – un’elezione presidenziale, quasi quattro anni ed oltre 20.000 menzogne più tardi – quello stesso imbonitore da baraccone e bugiardo cronico ha accettato, al termine della Convention repubblicana, la sua seconda, incontrastata nomina a candidato in vista delle elezioni del prossimo 3 novembre. E lo ha fatto da par suo, tra gli entusiastici applausi di quello stesso establishment ora trasformatosi in corte, nel clima di sordida solennità che, da sempre, meglio s’addice agli impostori ed ai ciarlatani. Ovvero: quello d’un affermato, solido culto della personalità. La sua personalità. La personalità di Donald J. Trump, grande ed invincibile leader, “ultimo baluardo a difesa della civiltà occidentale”, guida e custode del “sogno americano” minacciato da orde di assatanati criminali. Perché proprio questo è quanto, lungo i suoi quattro giorni di durata, la Convention ha infine sancito al di là d’ogni ragionevole dubbio: la definitiva trasfigurazione del Partito Repubblicano – quello che ancora oggi continua, per ipocrisia e per inerzia, a definire se stesso il “partito di Abraham Lincoln” – nel partito, o per meglio dire, nella setta del culto di Donald Trump.

Tra lunedì e giovedì scorso, nulla è stato, in questo liturgico senso, risparmiato ad ascoltatori e televidenti. A cominciare, ovviamente, dall’ostentata aria di regime e dall’assoluta, sciorinata impunità che d’ogni culto è, in ogni latitudine, l’inevitabile corollario. O, meglio ancora, a cominciare dal religioso, sfrontato porsi del “grande leader” al di fuori ed al di sopra della legge. E, persino, al di sopra della politica. Per la prima volta il Partito Repubblicano è giunto alla Convention senza una piattaforma programmatica, forte d’un piano d’azione riassumibile in una semplice frase, anzi, in un sintetico imperativo: tutto che quello che Trump vuole sarà fatto.

E ancora, a proposito di arbitrio ed impunità: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti d’America, una manifestazione di parte s’è svolta – cosa severamente proibita da una norma nota come Hatch Act – in una pubblica proprietà. Nel caso specifico, nella Casa Bianca, per l’occasione imbellettata da luci e bandiere, e da Trump senza ritegno definita, “home”, la “sua” casa. “Non è una magnifica casa, questa?” s’è retoricamente chiesto il presidente, uscendo per un istante dal percorso tracciato dai teleprompter ed indicando la White House alle sue spalle. “Più che house – ha subito aggiunto – io la chiamerei home. My White Home. Ed il punto è che noi siamo dentro e loro fuori…”. Una frase, questa, che la platea – una platea di 1500 eletti seguaci del culto, tutti senza mascherina e tutti troppo entusiasti per rispettare le norme di distanziamento sociale – ha accolto con una prolungata e decisamente contagiosa ovazione.

Dentro quella casa – quel luogo pubblico usato, contro la legge, come scenario d’una per nulla metaforica incoronazione (è mancata in effetti solo la corona) – non vi è stato spazio, in quei quattro giorni, che per il più assoluto ossequio, nel più totale, “monarchico”, anzi, imperiale e dinastico senso del termine. Una fetta consistente degli oratori portava il medesimo cognome dell’incoronato. O all’incoronato era comunque legato da qualche vincolo di parentela, d’amicizia o, nell’uno e nell’altro caso, di complicità. Dei cinque figli del presidente, solo il più giovane – l’impenetrabile Barron Trump, appena quattordicenne – non ha cantato le lodi del padre. A Ivanka, la figlia prediletta (e da molti ritenuta la vera first lady, nonché l’erede al trono), è toccato il compito d’introdurre, con i più melensi accenti, il discorso finale del padre. E nel nome del padre gli altri due figli, Donald Jr. ed Eric, hanno, a turno, elevato al cielo veri e propri peana. Anche la moglie del secondo e la compagna del primo sono puntualmente scese in campo. Quest’ultima, Kimberly Guilfoyle, con un intervento che, per i suoi toni di mistica esaltazione, s’è immediatamente “viralizzato” in rete, come esempio d’involontaria comicità.

Il vero teatro, il tempio di questo culto non è stato, tuttavia, il candido palazzo di 1600 Pennsylvania Avenue, per l’occasione trasformato in una sorta di trumpiana Versailles. Il vero luogo della Convenzione è stato all’uopo creato, necessariamente, in un altrove che non esiste, in un’America immaginaria, che la liturgia della Convention ha così, in estrema sintesi, reiteratamente raccontato. C’era un paese distrutto (quello, anch’esso del tutto immaginario, lasciato in eredità a Trump dalla perfida coppia Obama-Biden) che, in appena tre anni, il grande leader ha trasformato, mantenendo ogni promessa, nella “più grande economia di sempre”, in un esempio di prosperità e ricchezza mai visto prima nell’universo mondo. A sciupare questo inedito miracolo è quindi giunto, dalla Cina, un terribile “nemico invisibile” – si, proprio quella pandemia che, in marzo, Trump aveva profetizzato destinata “per miracolo” a svanire nel nulla – che il grande leader ha però da par suo affrontato e vinto, con epica destrezza, grazie “alla più grande mobilitazione di forze dalla Seconda Guerra Mondiale”.

La rapidità ed il vigore con la quale Donald J. Trump ha risposto al Covid-19 (il “virus cinese”) ha – continua il racconto – salvato “milioni di vite umane”. Ed ha creato le condizioni per una ripresa economica che – ormai avviata ad essere ancora una volta, “la più grande di sempre”, anzi, la “più grande nella storia del mondo” – è ora violentemente attaccata, con la scusa della lotta ad un inesistente razzismo, dalla “sinistra radicale”. O meglio: dalle bande di “anarchici”, “sediziosi”, “saccheggiatori” e “terroristi” che di quella sinistra sono la vera espressione. Da “socialisti”, che vogliono aprire le frontiere a orde di immigranti, “consegnare il paese alla Cina” e distruggere Dio, la Bibbia ed il sogno americano. Più specificamente: che vogliono distruggere “the suburbs”, quei sobborghi che, fatti di singole case con giardino nelle periferie delle città, del sogno americano sono, da sempre, e nella sua più “bianca” versione, il vero simbolo. “Se vince Biden – ha detto Matt Gaetz, deputato della Florida e trumpiano antemarcia – avrete come vicini i membri del MS-13 (la più nota e feroce delle “pandillas” latine, meglio nota come Mara Salvatrucha n.d.r.)”.

L’universo parallelo nel quale s’è consumata, intervento dopo intervento, la liturgia del culto, è un eden oggi minacciato da un classico e molto orwelliano “nemico esterno”, una sorta di tenebrosa “anti-America” di cui il candidato democratico, Joe Biden, non è che il “cavallo di Troia”, un “empty vessel”, un vascello vuoto trascinato alla deriva dalle correnti del più terrificante estremismo. Un vascello che solo il grande leader può oggi sconfiggere nel nome della legge e dell’ordine, di Dio e della famiglia. Donald Trump già lo aveva annunciato quattro anni fa nell’entrare alla Casa Bianca, oggi diventata la “sua” casa: “I alone can fix it”, io soltanto sono in grado di mettere le cose a posto. Allora le “cose” da sistemare erano il presunto “disastro” lasciatogli in eredità da Obama. Ora le “cose” sono l’eden prodotto dai suoi quasi quattro anni di governo. Ma nessuno ha perso tempo a considerare questa marginale differenza. Oggi c’è una battaglia da vincere, anzi, una battaglia che solo Trump può vincere. Ed è la battaglia contro il disordine e l’anarchia di cui Joe Biden e Kamala Harris sono – nelle vesti di burattino e di burattinaia – i perfidi portatori.

I quasi sei milioni di infettati ed i 180.000 morti (and counting, come si usa dire) provocati dalla pandemia, l’incombere d’una nuova e devastante depressione economica, non sono state, nel corso della Convention repubblicana, che sbiadite immagini, i residui d’una battaglia già vinta, numeri ormai illeggibili, ombre che si allontanano nel retrovisore d’una fuoriserie avviata, con Donald J. Trump alla guida, verso nuove vittorie. E va da sé che nell’universo parallelo del culto trumpiano impossibile è trovar traccia alcuna – foss’anche uno solo dei suoi capelli posticci – dello stravagante personaggio (Donald Trump, chi era costui?) che, a febbraio, preannunciava un’America con “zero contagi” nel giro d’un “paio di settimane”; o del tragicomico saltimbanco che, qualche settimana più tardi, aveva “suggerito”, in conferenza stampa, la possibilità di curare la malattia con iniezioni di disinfettante nei polmoni. O, ancor meno, del presidente la cui tronfia inettitudine ha fatto dell’America il paese più infettato – in questo caso davvero “number one” – dell’intero pianeta.

Se l’umana “decenza” di Joe Biden – il vecchio “Uncle Joe”, zio Joe, deciso a riunire la famiglia americana ed a portarla fuori dalle tenebre nelle quali è precipitata grazie all’indecenza trumpiana – era stato, la settimana prima, il motivo conduttore della Convention democratica, l’incoronazione di Donald Trump si è dipanata all’insegna della “grandezza” (greatness, pura, estatica, epica grandezza) del nominato. Una grandezza che, con la spietata giustizia che è solo dei veri uomini della Provvidenza, ha in questi anni fatto piazza pulita di tutto e di tutti. O che, come recita il catechismo trumpiano, ha sbaragliato, trionfo dopo trionfo, i ripetuti assalti del “deep state”, dello Stato profondo, sicario dell’ancien régime. Una grandezza senza la quale ed oltre la quale altro non v’è, oggi, che caos e anarchia. “Washington non ha cambiato Donald Trump – ha enfaticamente affermato Ivanka nel presentare il padre -. Donald Trump ha cambiato Washington”.

Verissimo. E infatti quello che giovedì notte, nell’incontenibile entusiasmo d’un trasfigurato establishment washingtoniano (lato repubblicano), ha accettato la nomination, era esattamente lo stesso “carnival barker” e “pathological liar” che quattro anni fa s’era (sorprendentemente, ma non troppo) rivelato il più in sintonia con i sentimenti e, soprattutto, con risentimenti della (molto bianca) base repubblicana. Ed è proprio così, da cronico bugiardo – quel che Donald Trump è stato lungo la sua intera esistenza, come figlio di papà, real estate mogul, bancarottiere, personaggio televisivo e, infine, come politico – che, all’insegna della più assoluta spudoratezza, il presidente in carica si è (ri)presentato al mondo. Come? Con un discorso lungo 70 interminabili minuti, in gran parte letto dal telepromter con la medesima tediosa gnagnera d’un bambino che recita una poesia senza capirne il contenuto; e, per il resto, sbrodolato a braccia in una serie di insulti a Joe Biden – citato per oltre 40 volte – che avevano il medesimo fascino d’un disco rotto. Un discorso che più che prevedibilmente, in un vero e proprio tsunami di frottole, ha ancora una volta costretto gli esperti di fact-checking ad una stakanovistica lotta contro il tempo. Stakanovistica ed inutile, considerata la assoluta impermeabilità ad ogni verifica e ad ogni rettifica del trumpismo. E considerato il fatto che proprio nell’impunita ripetitività sta il segreto dell’incredibile record di menzogne – oltre 20.000, per l’appunto – marcato da Trump in questo suo primo mandato.

Non mancano ormai che un paio di mesi al voto. E così, con la “decenza di zio Joe” contrapposta alla eroica grandezza di Trump-uomo-della-Providenza, che l’America marcia verso lo storico appuntamento. Come finirà? Nonostante i cataclismi consumatisi in questi tre anni e mezzo – cataclismi che sono cronaca quotidiana – tutto sembra preannunciare una replica del 2016. Dovessero le presidenziali Usa essere elezioni “normali” – normali nel senso che vince quello che ottiene più voti – Joe Biden potrebbe fin d’ora preparare in suo discorso inaugurale. Ma grazie al sistema dei collegi elettorali tutto ancora una volta si deciderà in una manciata di “battleground states”, di stati in bilico, dove tutto, come quattro anni fa, corre lungo un filo di rasoio.

Tutto può succedere. E Donald Trump, l’uomo della Provvidenza, già ha più riprese dichiarato che qualunque risultato che non decreti un suo trionfo sarà, inevitabilmente, prodotto di una frode. Mala tempora currunt, in America e nel mondo, per la democrazia…

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