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Bye bye, Rudy

Scelta dall’ex sindaco di New York come rampa di lancio per le sue ambizioni presidenziali, la Florida gli ha regalato, con il 15 per cento dei voti, un umiliante terzo posto – La corsa dell’ eroe dell’11 settembre giunge al capolinea dopo una sola formata – Ed il testimone di favorito a passa ora nelle mani di John McCain, dato per spacciato lo scorso autunno…

 

13 maggio 2008

di Massimo Cavallini

 

Ei fu. Rudolph William Giuliani, ex sindaco di New York City divenuto “sindaco d’America” tra le macerie delle Torri Gemelle, è definitivamente uscito, nella notte di martedì, dalla corsa per la Casa Bianca. E, nonostante le napoleoniche ambizioni che, mesi fa, avevano caratterizzato la sua discesa in campo, non sarà davvero necessario, nel suo caso, attendere la proverbiale, manzoniana, “ardua sentenza” dei posteri per cogliere le ragioni ed il significato ultimo della sua caduta. Gli elettori repubblicani della Florida, gli stessi ai quali Giuliani aveva, con tipica arroganza, concesso il “privilegio” di lanciare la sua candidatura, ne hanno, al contrario, inequivocabilmente sancito l’irrilevanza (vedi quest’articolo scritto alla vigilia del voto). In tutto un miserrimo 15 per cento dei voti che gli vale – come volevano le previsioni della vigilia – un umiliante terzo posto, molto lontano dal senatore dell’Arizona John McCain, vincitore della contesa con il 36 per cento dei suffragi, e dal 31 per cento del governatore del Massachusetts, Mitt Romney. Un bilancio che non lascia scampo e che, soprattutto, non concede margini di sorta a quanti volessero – oggi, o in un lontano futuro – cercare in questa disfatta i margini di qualsivoglia “vera gloria”.

Già nella prima serata di martedì, quando ancora doveva essere scrutinata la metà dei voti, un solo dubbio tormentava le analisi degli osservatori politici. Quando, e in che modo, Giuliani avrebbe abbandonato la tenzone che, solo qualche settimana fa, prima che la parola passasse alle urne, molti (e lui su tutti) pensavano avrebbe vinto a mani basse? Avrebbe, l’ex sindaco di New York, ceduto le armi quella stessa notte? O avrebbe atteso un paio di giorni prima di dichiarare – cosa da tutti data per scontata – il suo ufficiale appoggio alla candidatura di John McCain (da Giuliani già da tempo eletto come “favorito” tra i rivali)? E le risposte sono arrivate ben prima che il conteggio si fosse concluso. Rudolph William Giuliani non ha né annunciato il suo ritiro dalla competizione, né consegnato il testimone al senatore dell’Arizona. Ma il sistematico uso dei verbi al passato (avevamo creduto, pensavamo, avevamo l’intenzione di… ) ha dato al suo discorso un ineludibile senso di fine corsa. Il nostro tram – ha detto implicitamente il “sindaco d’America”, sfoggiando una signorilità che, fino a ieri, raramente era stata considerata tra le sue più spiccate virtù – è arrivato al capolinea. C’è arrivato alla prima fermata, in modo inatteso, ma il viaggio è, comunque, valso la pena. Perché abbiamo posto il Paese di fronte a questioni alle quali dovrà – quale che sia l’uomo scelto per guidarlo – dare adeguate risposte. Cose che dicono tutti gli sconfitti, certo. Ma che lo sconfitto Rudy Giuliani ha ripetuto martedì sera con certa eleganza e, considerata la fonte, con qualche originalità.

Se ne va dunque il grande favorito dell’autunno, dando di sé, da perdente, un’immagine migliore di quella che lo ha accompagnato in tempi di vittoria. E passa la mano all’ultrasettantenne John McCain, l’uomo che, in quello stesso autunno, le telecamere avevano impietosamente ritratto mentre, da solo, caricava i bagagli sul “Straight Talk Bus” (il pullman elettorale battezzato “parlar chiaro”) che portava la sua campagna in giro per il paese. Le casse erano vuote, i due terzi del personale era stato licenziato ed il suo messaggio sembrava soltanto la brutta en po’ patetica copia di quello con il quale, nell’anno 2000, aveva invano tentato di contrastare l’ascesa di George W. Bush. E, soprattutto, sembrava, quel messaggio, destinato scontrarsi con i cupi umori della più dura base repubblicana a causa delle sue – chiamiamole così – troppo pronunciate aperture “bipartisan”. Non per caso, proprio qui, in Florida, Mitt Romney aveva, negli ultimi giorni di campagna, usato contro di lui la “L world”, la parola che comincia per elle. Ovvero: lo aveva, come evocando Satana, definito“liberal”. Non ha funzionato. Ed ora tutti si interrogano sulle vere ragioni di queste due storie parallele e contrapposte. Vale a dire: la repentina morte di Rudy Giuliani, l’eroe dell’11 settembre, e la meno repentina, ma altrettanto inattesa risurrezione di Lazzaro McCain, uscito dal suo sepolcro ed oggi intento a camminare da grande favorito verso l’appuntamento del “super Tuesday”

Perché McCain? Forse soltanto “per esclusione” . O meglio: solo perché in un arco di candidature largamente incomplete McCain era (è) l’unico che presentasse caratteristiche forse non esaltanti, ma sperimentate. Giuliani s’è rivelato – cosa che già si sapeva – uno di quei “leader forti” che, al di fuori di situazioni d’assoluta emergenza, riesce a metter paura anche ai suoi più accaniti sostenitori (molti, in queste ore, hanno fatto maliziosamente notare come, alla fine, abbia preso più voti nel New Hampshire, dove non ha fatto campagna, che in Florida dove ha battuto lo Stato palmo a palmo). Mitt Romney è rimasto una pietanza fredda. E la sorpresa Mike Huckabee, l’affabile ex predicatore battista divenuto governatore dell’Arkansas, non è a conti fatti riuscito ad estendere il suo “appeal” oltre i confini della destra cristiana. In questo quadro il “vecchio” McCain era ed è l’unico che – sia pure con molti limiti e con grande fatica – riesca in qualche modo a tenere insieme la coalizione di forze diverse (la famosa “Reagan coalition”, composta da conservatori in materia di valori, o “social conservatives”, e di liberisti in materia economia) che ha per molti anni garantito ai repubblicani una maggioranza di voti.

McCain, rammentavano i politologi martedì notte, ha ora bisogno di una convincente vittoria nel super Tuesday per evitare il protrarsi nel tempo di uno scontro – quello tra lui e Romney – che potrebbe mettere a nudo il suo perdurante tallone d’Achille: la mancanza di fondi (nel forziere del senatore non vi sono che 2 milioni di dollari, contro i 12 di Romney). E, per vincere in modo convincente e rapido, McCain dovrà anche, probabilmente, tentare di riconciliarsi con l’ala dura del partito repubblicano. O, per meglio dire: dovrà sottomettersi (cosa che fin qui ha fatto solo occasionalmente) ai riti di accettazione delle posizioni più estreme in materia di aborto ed immigrazione. Il che, aggiungono, potrebbe esporlo ad imprevedibili scivolate. Perché? Per una semplice ragione. McCain – che sia detto per inciso è stato fin qui l’unico, nei dibattiti tra candidati repubblicani, a schierarsi senza compromessi contro l’uso della tortura – è una persona onesta. E, come tutte le persone oneste, appare particolarmente goffo ogniqualvolta deve dire o fare cose che non condivide. Oggi – dicono molti osservatori – è indiscutibilmente lui il “frontrunner” repubblicano. Ma potrebbe perdersi per strada.

E i democratici? In Florida ha vinto Hillary. Ed ha vinto – cosa data per scontata – con largo margine (50 a 33) una battaglia destinata ad assegnare ai due candidati il medesimo numero di delegati: zero. Perché, come’è noto, la direzione nazionale del partito democratico ha punito lo Stato – colpevole di avere arbitrariamente anticipato la data delle sue primarie – escludendolo dalla contesa. E tuttavia, per quanto platonica, la sua vittoria ha comunque lanciato un importante messaggio. In Florida nessuno dei candidati ha fatto campagna. Ed in assenza di campagna il peso degli apparti elettorali è facilmente prevalso sul carisma delle persone e sui contenuti delle proposte. Qualcosa del genere è probabile avvenga – considerata l’estensione della contesa – anche nell’ormai prossimo super Tuesday. Insomma: in questa corsa alla nomination democratica, Barak Obama rappresenta certo la novità, la speranza, la gioia, la gioventù e, in qualche misura, persino la “bellezza”. Ma la favorita resta lei, Hillary Rodham Clinton. Ed è bene non dimenticarlo…

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