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Bush, il piccolo presidente diventato grande fratello

Per salvare la democrazia dagli attacchi del terrorismo, il presidente Usa ha una (vecchia) idea: distruggerla – Il New York Times rivela (e Bush confessa con l’orgoglio del “salvatore della patria”) migliaia di intercettazioni telefoniche illegali – Qualcuno comincia a parlare di “impeachment”

13 marzo 2006

di Massimo Cavallini

 

Corsi e ricorsi della storia. Quaranta (o giù di lì) anni or sono, gli strateghi dell’intervento americano in Vietnam avevano elaborato una teoria militare rimasta negli annali come forse il più bizzarro ed ipocrita tra i molti tentativi di mascherare la vera natura della guerra in corso. Molti la ricorderanno: “destroy the village in order to save it”, distruggere il villaggio al fine di salvarlo. Oggi George W. Bush – che, non dimentichiamolo, non perde occasione per definire se stesso un “presidente di guerra” – sembra voler applicare, anzi, per molti aspetti già ha assai concretamente e massicciamente cominciato ad applicare, un’aggiornata e ben più estesa versione di questa bellica filosofia. Non per dare alle fiamme, stavolta, qualche capanna (con annesso contenuto umano) nelle remote giungle del sud-est asiatico, bensì per fare a pezzi – con l’ovvio e luminoso obiettivo di salvarli dalla minaccia terrorista – due dei beni più riveriti dai padri fondatori della Nazione: le “civil liberties”, libertà civili (diritto alla privacy in testa) di ciascun cittadino e, insieme, quel sistema di “checks and balances” (vale a dire, di equilibro e reciproco controllo tra esecutivo, legislativo e giudiziario) che impedisce il formarsi di “poteri imperiali”. “Nelle settimane seguite agli attentati dell’11 settembre – ha infatti orgogliosamente confessato il presidente nel corso del suo ultimo messaggio radio alla nazione – ho, in piena coerenza con la legge e con la Costituzione, autorizzato la National Security Agency ad intercettare le comunicazioni internazionali di gente notoriamente legata ad Al-Qaeda e ad organizzazioni terroriste a quest’ultima connesse…”. Tale autorizzazione, aveva quindi aggiunto trasfigurando l’orgoglio in evidente sdegno, è parte d’un piano “altamente segreto” – e non meno altamente necessario al fine di “salvare vite americane” – che, di recente, i media hanno inopinatamente provveduto, facendo un evidente favore al nemico, a render di pubblico dominio…Ma non temano i cittadini d’America: a dispetto d’ogni tradimento, io (George W. Bush) “continuerò, fino a che sarò presidente degli Stati Uniti, a fare tutto ciò che è in mio potere per proteggere le vostre libertà civili”. Come? Continuando senza tentennamenti a distruggerle. Ovvero: continuando ad intercettare, senza controllo alcuno, qualsivoglia comunicazione. Chiaro, lineare, ineccepibile…

 

Inevitabile quesito: com’è arrivato, il più potente uomo del pianeta, ad una tanto logica conclusione? Qual’è stato (qual è) il presupposto della sua assai fiera pubblica confessione seguita da un’altrettanto fiera ed indignata denuncia? Per capirlo occorre partire da alcune premesse storico-politico-legali e – in termini più immediati – dall’articolo che, pubblicato lo scorso 16 di dicembre, a firma James Risen ed Eric Lichtblau, dal New York Times, ha rivelato – questo il “tradimento” additato al pubblico spregio dal presidente – l’esistenza di migliaia d’intercettazioni telefoniche effettuate negli ultimi anni, dentro gli Stati Uniti e con il solo assenso del presidente, dalla National Security Agency. Negli Usa, come in tutti i paesi civili, questo tipo d’attività d’indagine è – in condizioni, diciamo così, “normali” – sottoposta ad autorizzazione della magistratura. E proprio questo è il punto di partenza della teoria d’autodifesa e contrattacco con cui Bush ha involontariamente rinverdito, negli ultimi giorni, la (non proprio lieta) memoria del Vietnam. Le condizioni in cui, dopo l’11 settembre, è vissuta l’America – ha sostenuto con napoleonici accenti – non sono affatto “normali”. Ed anzi – à la guerre comme à la guerre – richiedono misure (e poteri) eccezionali. “Per combattere la guerra contro il terrore – ha detto Bush nel suo discorso radiofonico e ripetuto più volte in seguito – ho usato l’autorità che mi è stata conferita dal Congresso attraverso il Joint Authorization for Use of Military Force, approvato a larghissima maggioranza la settimana successiva all’11 settembre, nonché l’autorità che la Costituzione mi attribuisce in quanto commander in chief…”. E dovesse qualcuno sospettare che tanto potere possa, in qualche momento, dare origine a degli abusi, si tranquillizzi all’istante: tutte le procedure e tutti i casi – ha sottolineato – sono sottoposti, ogni 45 giorni, alla verifica del Dipartimento alla Giustizia (ossia, del medesimo governo)…Ancora una volta: chiaro, lineare, ineccepibile.

 

Il problema è, per Bush, che in un tanto chiaro e lineare contesto, tutti stanno invece, specie dopo il suo discorso, in qualche modo eccependo. Qualcuno sta, anzi, eccependo con tanto ardore che, dalle sempre più turbolente pieghe del dibattito politico, è ormai emersa – flebile, ma già udibile – quella che nel politicese americano viene indicata come “the i-word”, la parola che comincia con “i”. “I”, ovviamente come “impeachment”. Autorizzando intercettazioni telefoniche, affermano molti, Bush ha palesemente violato la legge. Ed a sostegno di questa tesi apportano fatti e circostanze che, fondamentalmente divisi in tre punti, appaiono – in questo caso davvero – chiari e lineari.

 

Primo punto. La Joint Authorization for Use of Military Force – ossia la legge che, quattro anni fa, ha dato al presidente facoltà d’usare la forza militare contro gli autori ed i complici degli attentati dell’11 settembre – non fa menzione alcuna, esplicita o implicita, del potere d’intercettazione. O, nel suo silenzio, addirittura questo potere esclude, come, in un “op-ed” pubblicato il 23 dicembre dal Washington Post, ha apertamente sostenuto Tom Daschle, a quei tempi alla testa della maggioranza democratica al Senato. Secondo Daschle, infatti, il presidente aveva espressamente chiesto, nel corso degli incontri intrattenuti con i leader del congresso, che la legge contenesse uno specifico articolo dedicato alla piena libertà d’indagine. E quell’articolo gli era stato altrettanto implicitamente negato sulla base (e qui viene il secondo punto) d’una assai logica motivazione: la legge americana già ha previsto – fin dal lontano 1978 – una procedura “ad hoc” per le operazioni che necessitano il massimo di segretezza e di rapidità. Approvando il Foreign Intelligence Surveillance Act (FISA), il Congresso ha formato una speciale (e segretissima) Corte di 11 giudici che possono, in brevissimo tempo (o addirittura a posteriori, se le circostanze delle indagini lo richiedono) autorizzare intercettazioni telefoniche nel territorio Usa (quelle all’estero sono, a tutti gli effetti, libere da qualsivoglia permesso o controllo). Minime le possibilità che una richiesta venga respinta (la cosa non è fin qui accaduta che in cinque dei 19mila casi presentati. In un’assai ambigua difesa del suo vecchio capo (consumatasi ieri l’altro nel corso d’una intervista televisiva) lo stesso Colin Powell – l’ex segretario di Stato la cui diffusa reputazione di “grande saggio” fu tra le prime vittime dell’attacco all’Iraq – lo ha detto con chiarezza : le intercettazioni telefoniche ordinate da Bush sono a suo avviso state, ha spiegato, “perfettamente legali”. Ma il presidente, ha subito aggiunto, avrebbe potuto tranquillamente raggiungere il medesimo obiettivo rispettando le indicazioni del FISA. Perché, dunque, Bush non ha, dopo l’11 settembre, seguito questa praticabilissima strada? La risposta presidenziale resta, al di là dei toni sdegnati, di fatto affidata ad alcuni esempi infelicemente scelti (il caso delle mancate intercettazioni di due degli attentatori dell’11 settembre, espressamente citato nel discorso radiofonico, è poi risultato sostanzialmente falso) e, soprattutto, ad alcune “opinioni”, o “memo”, scritti, in merito, da alcuni esperti all’uopo commissionati dal Dipartimento alla Giustizia. Gli stessi esperti (in cima alla lista il professor John Yoo, dell’Università di Berkeley) che, quasi contemporaneamente, hanno stilato pagine – quelle che hanno difeso l’uso della tortura – destinate a restare come indelebili macchie di vergogna nella storia di questa presidenza. Nella politica di Bush, tutto in qualche modo si lega. E, in genere, si lega nel fango.

 

Terzo punto: il summenzionato Foreign Intelligence Surveillance Act non era, a suo tempo, nato dal nulla. Ed anzi le motivazioni della sua nascita apertamente avevano richiamato uno storico problema riaperto oggi dai comportamenti presidenziali. Quello, per l’appunto, dei poteri della National Security Agency, la più grande (il suo bilancio annuale, pari a sei miliardi di dollari, è superiore a quello congiunto di CIA e FBI) e la di gran lunga più misteriosa ed “intoccabile” (una vecchia battuta vuole che la sua sigla, NSA, stia per “Not Such Agency”, non esiste questa agenzia) tra le forze dell’intelligenza americana. Nel ’78, quando la FISA era stata approvata, ancora fresca era la memoria dei molti orrori della presidenza “imperiale” di Nixon: la vasta operazione di spionaggio interno – la cosiddetta Minaret Operation – che, per ordine del presidente, proprio la NSA aveva in quegli anni condotto ai danni dei movimenti di protesta contro la guerra in Vietnam; l’operazione Shamrock tesa a controllare, ad unico beneficio della presidenza, tutti i telegrammi in uscita dagli Stati Uniti. O, più ancora, la famigerata operazione Phoenix, il cui scopo era assassinare, in Vietnam, tutti i nemici politici del regime fantoccio allora appoggiato dagli Stati Uniti. Nel 1975, nel chiudere i lavori della commissione congressuale d’inchiesta sugli abusi di quegli anni (commissione che proprio lui presiedeva nelle vesti di capo del Selected Committee on Intelligence) il senatore dell’Idaho, Frank Church, aveva pronunciato drammatiche parole che si potrebbero, senza sostanziali alterazioni, ripetere oggi. La NSA, aveva detto, possiede enormi capacità tecnologiche e finanziarie (concentrate in due giganteschi “centri d’ascolto”, quello di Sugar Grove in West Virginia e quello di Yakima, nello Stato di Washington). E, aveva aggiunto, queste capacità possono, in qualunque momento, “rivolgersi contro il popolo americano, creando una forma di tirannia totale contro la quale nessuna resistenza sarebbe possibile”. È necessario mettere immediatamente questa capacità sotto controllo, se non vogliamo che “il paese attraversi il ponte che porta verso l’abisso…”.

 

Nella mente di George W. Bush non c’è oggi, presumibilmente, alcuna forma di “tirannia totale”, bensì – come un editoriale che andava alle radici del problema delle intercettazioni ha di recente sottolineato sul New York Times – un’idea di ripristino della “presidenza imperiale” che ieri fu di Nixon e che oggi è, con tutta evidenza, farina del sacco di Dick Cheney, l’auto-prescelto vice-presidente che molti chiamano il vero-presidente o il cripto-presidente. Nel reclamare questo ripristino – “i poteri del presidente in materia di sicurezza nazionale devono essere assoluti” ha dichiarato una settimana fa – Cheney ha, quale che sia la più corretta definizione del suo ruolo, scelto di partire da due punti che appaiono comunque rivelatori: il diritto di torturare (nei centri specializzati creati in molte parti del mondo) i “nemici combattenti”, e quello di spiare senza fastidiosi controlli chiunque l’Amministrazione ritenga opportuno nel nome della “guerra al terrore”. Un bel paio di bombe al napalm lanciate contro il villaggio della democrazia. Che, notoriamente, deve – oggi, come ieri – essere distrutto per essere salvato…

 

Stavolta è proprio il caso di dirlo (e di dirlo pregando): che Dio benedica l’America…

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